Un’altra degli aspetti positivi di Dubai è che con un’oretta
di macchina puoi raggiungere l’Oman.
L’Oman ha aperto i suoi confini ai visitatori solo nel 1990
e il suo cielo non è grattato da nessuna costruzione, al contrario è il cielo a
lanciarsi verso il suolo coi suoi monsoni. Ciò fa dell’Oman l’unico paese della
penisola arabica in cui i deserti diventano improvvisamente foreste con fiumi
torrenziali che scendono a valle; lo stesso posto visitato in due momenti
dell’anno differenti si mostra completamente diverso… questa è la cosa più
vicina al concetto di quarta dimensione
che io abbia mai conosciuto.
Per raccontarvi cos’ho visto e vissuto devo presentarvi i
miei compagni di viaggio, visto che si sono rivelati ottimi colleghi tanto che durante
la convivenza forzata non li ho segretamente odiati neppure per un minuto! C’è
il pluridecorato socio di vita Castri, il rampante Guido con una doppia fondina
ascellare dalla quale pendono due macchine fotografiche in ghisa che alterna
come un giocoliere o come un fuciliere e, infine, il gattone Walter
perennemente in calore con tanto di acuti miagolii intonati quanto quelli di un
soprano.
Al mattino la sveglia segnava le 4e40, la nostra meta era
Barka, un paesino sulla costa del nord dell’Oman che non credo veda molti
turisti di solito. Siamo arrivati all’alba quando le barche dei pescatori
tornano dalla loro battuta, l’intento era quello di immortalarli, ma dopo pochi
scatti mi sono trovata con una cassetta di pesce in mano diretta al mercato
sulla spiaggia con le sue mattonelle bianche in attesa della merce.
In tutta l’area eravamo 3 o 4 femmine, io ero l’unica sotto
i 50 anni col primato di avere ginocchia e braccia scoperte e capelli al vento,
ma ero perfettamente a mio agio, gli omaniti sono tutti gentilissimi, educati e
sorridenti.
Anche loro vestono il Biancone, ma al posto della federa
usano un cappellino ricamato in varie fantasie e, sarà che ormai mi sto
abituando, sarà il loro portamento aristocratico, ma li ho trovati
elegantissimi. Inoltre hanno dei bei lineamenti, qui Dolce e Gabbana
sbroccherebbero.
La loro educazione è impeccabile, l’ospitalità è
evidentemente sacra, nessuno ci ha sfottuti col solito “ah, Italia! Berlusconi…”.
Si sono lasciati fotografare pazientemente da noi 4 che
giravamo come avvoltoi famelici tra enormi pesci lucidi e frutta e verdura
matura appena uscita da una cornucopia.
Quando il sole era ormai alto, verso l’ora di pranzo, ci
siamo concessi una sosta al mare appena fuori dal paese, immergendo i miei
piedi nell’acqua ho guardato a destra e a sinistra: fino a perdita d’occhio
eravamo gli unici umani a godere delle gioie marine.
Nel pomeriggio abbiamo raggiunto un’arena dove portano a
combattere i tori… sì, hanno mucche e tori pure lì e sì, combattono, ma non
pensate a nulla di crudele, i tori si limitano a spingersi con la testa l’un
l’altro e vince quello che per primo costringe l’avversario a piegare le zampe anteriori.
La struttura è ampia e, nella sua circonferenza interna,
riesce ad ospitare oltre 50 tori che aspettano pazientemente il loro turno
tutti lustri e perfetti; il richiamo dell’evento è importante, i 3 gradini di
spalti sono quasi tutti occupati dalla gente che si riversa anche nell’arena per accomodarsi
sulla sabbia (miracolosamente senza sporcare i loro abiti candidi), salvo poi
scattare in piedi e scappare quando uno dei tori decide che ne ha abbastanza e
corre verso l’esterno perdendo l’incontro.
Io ero l’unica creatura di sesso femminile in quella bolgia
festosa e sono stata trattata come un ospite d’onore, nessuno ha mai occupato
il mio posto sugli spalti lasciandomi libera di andare e tornare a mio
piacimento, seguita da un nugolo di bambini divertiti che ho conquistato
semplicemente correndo e giocando con loro, i miei vicini di posto mi hanno
offerto di tutto, da semi di girasole a misteriosi riccioli arancioni fritti e
appiccicosi, che ho gentilmente rifiutato, anche se ora sono un po’ pentita.
I tori sbrigano velocemente la faccenda della lotta per
accontentare gli uomini, i quali gli incitano semplicemente lanciando della
sabbia sulle loro schiene, i miei compagni di viaggio si sono spinti a
fotografarli tanto vicini da sentire il cozzare delle loro teste, superando la
linea di confine disegnata sulla sabbia, gli unici ai quali è stato concesso di
farlo. (Walter ha avuto l’ardire di fare tutto questo indossando una maglietta
rosso vivace, dandoci la prova che ai tori, se non li infilzi, non li picchi e
non li torturi, se ne fregano del rosso) Chi vince raddoppia il valore del suo
animale, chi perde torna subito in fattoria senza rammarico, sempre a testa
alta.
Verso sera quando il sole aveva trasfigurato Guido e la
stanchezza reso tutti noi dei manichini di legno impolverati, ci siamo ritirati
nel nostro rifugio crollando esausti e soddisfatti.
Solo il giorno dopo abbiamo avuto la fortuna di interagire
con un gruppo di donne.
Sempre coperte dalla testa ai piedi ma, dimentiche del nero,
le omanite preferiscono i colori sgargianti.
Girovagando per strade più o meno asfaltate,
nell’attraversare un paesino senza nome, abbiamo notato un gruppo
di donne sedute su una grande stuoia al riparo dal sole e subito ci siamo
fermati. Non sapevamo bene come fare, fotografare le donne da queste parti può
essere considerato offensivo, ma ormai eravamo lanciati e, in quanto donna, mi
sono subito offerta come ambasciatrice per rompere il ghiaccio.
Una delle cose più belle di essere femmine è che questa è
una condizione che non ha confini culturali o geografici, tutte le femmine se
vedono altre femmine si riconoscono immediatamente e si sentono al sicuro; le
femmine condividono un codice segreto che non viene insegnato perché è
fisiologico quanto il respiro e che ti rende subito alleata, creando un “branco”
al di là dell’appartenenza d’origine. Noi sappiamo che se una femmina straniera
arriva con tre maschi stranieri, i maschi sono “a posto”, nessuno deve aver
timore.
Quindi è stato questo a permetterei di sedere con loro e non
i 4 biscottini al burro che ho portato in dono.
Il messaggio era chiaro, avevamo tutti una macchina
fotografica, ma nessuno osava scattare o domandarne il permesso. Tra sorrisi e
tentativi di comunicazione le donne omanite hanno avuto un’idea brillante: ci
hanno portato i loro bambini, affidandoli alle nostre braccia lusingate.
I bambini sono magici e potenti, e questi inoltre erano
bellissimi con le loro minuscoli unghie rosse di hennè, gli occhi d’inchiostro
nero contornati da kajal e i capelli che profumavano di incenso, è stato tutto
molto naturale, il legame era ormai stretto e le macchine fotografiche hanno
incominciato a lavorare tra le loro risate e la nostra gratitudine.
Dapprincipio timide, queste donne si sono lasciate ritrarre
a nostro piacimento, arrivando a cambiarsi di abito per sentirsi più belle e
sicure, rimanendo sempre favolose.
Quando è arrivata una macchina della polizia fermandosi
proprio davanti a noi, pensavamo che la festa fosse finita e ci siamo
immobilizzati tutti (io in quel preciso istante stavo insegnando a fotografare
ad una bambina di 2 o 3 anni, Mariah, che rideva a crepapelle ogni volta che
vedeva il risultato del suo scatto sul display), ma alla fine il militare si è
rivelato essere il figlio di una delle nostre nuove amiche che, come tutti i maschi
del mondo, era andato a prendere del cibo dalla madre.
Poco dopo è arrivato Mohammed un signore con delle mani più
grandi di Gianni Morandi, rubando la scena alle donne ci ha invitati a casa
sua; è qui che assaggiamo l’ospitalità omanita: ci dissetiamo con della
buonissima acqua piovana, del tè e mangiamo la fafaia (così si chiama la papaia
qui) raccolta nel suo giardino. È difficile riuscire a riprendere il nostro
viaggio, Mohammed ci vuole per pranzo, ma troviamo la forza di rifiutare e
siamo di nuovo on the road fino alla famigerata Snoopy Island, un grosso
scoglio battezzato così da qualcuno che evidentemente era riuscito a trovare
della droga in giro.
Tuffarci in mare è stato liberatorio, eravamo tutti accaldati
e stanchi io avevo i capelli come un cespuglio di paglia secca, Guido era di un
colore rosso magenta, il Castri pezzato come uno dei tori del giorno prima e
Walter… mah, Walter tutto sommato stava bene.
Anche in questo stato il mare ci ha accolti mostrandoci di
quanta vita è capace, abbiamo terminato il nostro weekend nuotando tra pesci
coloratissimi, tartarughe e giganti seppie aliene.
I 3 maschi dicono che c’era pure uno squalo, io non l’ho
visto, pare che si sia allontanato nuotando sotto di me, ma avevo la testa
fuori dall’acqua in quel momento e me lo sono perso… all’inizio ho pensato che
fosse un tipico scherzo da maschi: “hai un ragno in testa”, “c’è uno squalo
sotto di te”, ma poi ho notato le loro facce spaventate e ho ripensato al modo
disperato in cui hanno urlato “c’è uno squalo!!!” e ho capito che non era una
burla… mi spiace solo non aver provato anche io quel misto di eccitazione e
paura che puoi avere vedendo una di queste creature fiere e bistrattate.
Se hai letto tutto fino a qui, prima di tutto: grazie,
secondo significa che l’Oman è un posto che devi visitare, pensaci e fallo
senza appoggiarti a viaggi organizzati, è un paese sicuro, economico e
pressoché incontaminato.
L’Oman ha molte altre meraviglie che io non ho ancora visto:
la via dell’incenso, la coltivazione delle rose per la produzione della famosa
“acqua di rose”, un deserto pazzesco, montagne altissime, lussureggianti e lunari, un
mare incontaminato dove nuotano delfini e molto altro.
Ma sono le persone a renderlo ancor più speciale, forse
perché la loro curiosità nei nostri confronti è pari alla nostra, forse ancora
non hanno avuto tempo di odiare il turismo, visto che è solo da pochi anni che
le frontiere sono aperte, o forse è proprio la loro indole, in ogni caso per la
prima volta nella mia vita mi sono sentita un’esploratrice e non una
turista.