martedì 21 marzo 2017

Dell'essere ricoverati in un ospedale privato a Dubai. Un nuova avventura castricianense.

Un giorno Ale tornò a casa dicendomi di non sentirsi bene, aveva la faccia sbattuta, così si sdraiò a letto rabbrividendo e provò la febbre speranzoso. Speranzoso perché comunque non si sentiva poi così male e la febbre spesso è più l’occasione per riposarsi e farsi coccolare che una vera sofferenza, è per questo che i maschi fanno tante tragedie quando hanno 37 e mezzo, perché desiderano tornare bambini con un alibi valido, se dopo i 37 è ufficialmente febbre, allora l’alibi è approvato per legge.
Purtroppo per lui il giorno dopo era già sfebbrato, la guarigione lavora lesta e la pacchia sembrava finita, e invece no: la febbre saliva e scendeva senza seguire i normale andamento sera/alta e mattino/bassa, ricordano le parole di mia madre sospettai una polmonite e dissi al Castri che questa volta avrei deposto lo scettro del comando come imperatrice del suo corpo e che era il caso si affidasse ad un medico.
Avremmo inaugurato l’assicurazione medica mai utilizzata, non sapevamo neppure bene dove andare, così ci fermammo nell’ospedale più vicino a casa provvisto di pronto soccorso.
Entrammo seguendo le indicazione “emergency”, all’ingresso vedemmo un bancomat e una caffetteria solo dopo l’accettazione.
Io sono una grande frequentatrice di ospedali, sono caduta svariate volte abbastanza rovinosamente perché mi fossero messi punti o fatti esami alla testa; ho fatto l’appendicite; sono stata ingessata ad ambo due le gambe (in tempi diversi); steccata più dita delle mani; ferita un occhio col pennino mentre disegnavo i complicati reticoli di una foglia con la china; ho fratturato un osso del gomito, ma niente gesso, solo un tutore; una volta ci sono finita pure in ambulanza perché intossicata da qualcosa in piscina mentre ci allenavamo per delle gare, insomma mia madre diceva di avere l’abbonamento, quindi credo di avere una discreta esperienza in materia.

Appena entrati ci rivolgemmo all’accettazione descrivendo il disturbo di Ale, così si fa in un pronto soccorso: entri e descrivi il tuo malanno all’accettazione… no no baby, benvenuto nel fantastico mondo della sanità privata.
Prima di tutto dammi un documento e te lo chiedo senza togliere gli occhi dal mio schermo Sir, la prima persona con la quale parlerai al pronto soccorso non è un medico, ne un infermiere e neppure un pranoterapista, ma un tizio in giacca e cravatta strappato da un ufficio che manco vuole sapere che cos’hai, ti interrompe, vuole prima la tua tessera dell’assicurazione poi, solo dopo aver inserito i tuoi dati, ti chiede cos’hai, ma solo per verificare che la tua assicurazione copra quel determinato disturbo.
Ok, noi non avevamo un’urgenza, e non so come funzioni se arrivi in ambulanza con un’urgenza vera, ma mentre ero seduta in attesa ho visto arrivare due uomini che ne reggevano un terzo ferito ad un piede, che sanguinava e che era stato fasciato di fretta con qualcosa di rimediato. Pure a lui è stata fatta tutta la manfrina alla non ci resta che piangere (alt, chi siete, dove andate, un fiorino), e qualcosa dev’essere andato storto perché, sebbene ben vestiti e in possesso di un qualche tesserino, i due uomini si sono dovuti ricaricare l’amico sulle spalle e andarsene, col piede insanguinato e la faccia sconsolata.
Io ho assistito alla scena inorridita dall’alto della mia esperienza con la martoriata, eroica, vessata, depredata ed amatissima sanità italiana. Sì, era solo un taglio al piede, non era in pericolo di vita, e mi hanno detto che a Dubai esiste un ospedale pubblico gratuito, non so come sia e di certo lì lo avranno ricucito, ma vedere la scena dal vivo, le espressioni sui volti essendo nella stessa situazione, ti fa accapponare la pelle, ti fa vergognare della fortuna che hai, ti fa sentire come in un episodio di Black Mirror.
La sanità privata è in contraddizione con concetti come civiltà, cultura o evoluzione, se non possiamo cucire il piede di un uomo il progresso che crediamo di aver conquistato è solo una chimera.

Nel frattempo l’assicurazione aveva riconosciuto Ale e d’incanto era apparsa un’infermiera con una sedia a rotelle, mentre un secondo prima poteva morire lì, adesso non poteva più neppure fare un passo con le proprie gambe. Il Castri era ancora vergine in fatto di ospedali, non era mai stato al pronto soccorso, aveva solo una febbre ballerina, anche se era arrivata a 39 e passa non se la sentiva di farsi portare in giro in carrozzina, quindi rifiutò sorridendo, così come quando si fanno i complimenti di fronte alla zia che ti offre il secondo piatto di lasagne.
L’infermiera gentile sorrise, quasi scusandosi, replicando che non era possibile, Alessandro DOVEVA sedersi. Il Castri allora le assicurò che poteva benissimo camminare, del resto non era lì in piedi di fronte a lei in quel momento? Ma no, per questioni legate alla sua sicurezza doveva sedersi, non poteva deambulare da solo, di fronte alla risolutezza dell’infermiera Alessandro si sedette, ma più per evitare discussioni, per farle un favore.
Ecco, da quel momento scattò qualcosa, fu come un passaggio di consegne: quel corpo non apparteneva più a me o al Castri, quel corpo ora era loro.
Dopo non più di 8 metri l’infermiera fermò la sedia a rotelle di fronte ad una stanza con un lettino sempre all’interno del pronto soccorso e fece accomodare Alessandro, tutta ‘sta sceneggiata sulla sicurezza, e siedi, e dai no, mi vergogno, siedi ti dico! Eenno dai! Va bene… per fare neppure 10 passi?!
Io ancora non avevo chiaro il quadro della situazione, mi stupivo solo del repentino cambio di atteggiamento da prima a dopo il controllo dell’assicurazione, dalla freddezza inumana alla solerzia esagerata.
Poco dopo portarono Ale a fare i raggi, in minuti arrivò il risultato: polmonite. (questa è la prova uomini: le vostre mogli sanno sempre tutto prima di tutti)
Voi direte: veloci capperi, però le cose funzionano con un’altra marcia nella sanità privata!
Signori, la marcia è davvero un’altra perché nonostante la diagnosi noi non avevamo ancora visto un medico, ma solo paramedici, e ora ricominciava la fase “si ma i soldi li hai?” perché si doveva capire se l’assicurazione avrebbe coperto la cura quindi, se per la diagnosi sono serviti massimo 20 minuti dalla sedia a rotelle al responso, per l’approvazione dell’assicurazione sono passate 2 ore vere, col povero Castri tremebondo di febbre sdraiato in un letto senza niente per coprirsi; ho dovuto chiedere io se potevano portargli una coperta e sono arrivati con un lenzuolo.

[Sebbene Ale mi abbia dato il permesso, il mio senso di protezione da mamma orsa mi ha impedito di mostrare il volto della sofferenza, ma in quella col lenzuolo aveva uno sguardo che non poteva rimanere nascosto, era lo sguardo de La Febbra.]

Quando finalmente ci comunicarono l’approvazione dell’assicurazione, spostarono il malato nella sua camera, una singola con frigorifero, divano, poltrone, wifi e bagno privato.



Questa stanza è senz’altro molto meglio di quelle della sanità pubblica, lo ammetto, come è bello il fatto che non esistano orari di visita, tu puoi passare col degente tutto il tempo che vuoi, in quanti volete, il divano è lì apposta.
Questo però mi è costato il fatto di essere ricoverata insieme al Castri, dopo una lunga contrattazione sono riuscita giusto a spuntare il fatto di andare a casa a dormire, deo gratias.
Quindi ho passato una settimana con Alessandro, per vederlo mangiare e fare flebo con antibiotico e paracetamolo, a litri, crepi l’avarizia! Tutto qui, qualcosa che poteva fare benissimo a casa nel suo letto, certo doveva prendere le medicina per bocca, ma così l'assicurazione non avrebbe pagato 400 euro al giorno.
Quelli però non sapevano con chi avevano a che fare, il Castri infatti prese il suo ruolo di malato molto seriamente, innanzi tutto decise di tenere con sé il termometro, per provarsi la febbre ogni mezz’ora e mandava me ogni volta che superava i 38 e mezzo ad avvisare, questo dopo che aveva notato un certo lassismo nel rispondere quando suonava il suo campanello; gli infermieri, più pazienti di Giobbe, avevano capito che Alessandro non conosceva la storia di Pierino che gridava “al lupo, al lupo”.
Inoltre chiese di parlare col nutrizionista, responsabile dei menù, perché in effetti portare piselli ad un fabico non è carino, anche se sei già in ospedale, inoltre sosteneva che un malato necessita di frutta e verdura cruda per agevolare la guarigione, non di carote e cavolfiori bolliti, così come di cibo più semplice e nutriente come del pesce grigliato, senza troppe spezie e condimenti difficili da digerire, come il shawarma di montone che gli avevano servito poco prima. La dottoressa prendeva i suoi appunti scusandosi, dal canto mio non confessai di aver scelto io il shawarma per Ale, pensando di fargli cosa gradita, visto che ne è ghiotto, ero troppo commossa e orgogliosa per la faccenda delle verdure e del pesce grigliato.
[ogni giorno un’inserviente ti porta un menù con diverse scelte da spuntare per colazione (uova, cereali, frutta, succo, pane tostate e marmellata, yogurt, ecc.), per pranzo (carne, riso, verdure, yogurt, frutta, ecc.) e cena (vedi pranzo), tu spunti ciò che vuoi e te lo portano il giorno dopo. Questo è un altro aspetto positivo della sanità privata, anche se poi hai detto a tutti che sei fabico e ti servono piselli come verdura]
Il giorno dopo Alessandro ebbe insalata fresca e un filetto di pesce grigliato immerso in una succulenta salsa all’aglio...

Quando, verso le 23, tornavo a casa e mentre cucinavo la mia cena, il Castri non resisteva e mi chiamava su skype e questa era la scena che avevo di fronte:



Un santo che faceva spugnature fresche per alleviare le sudate da competizione che gli sbalzi di febbre causavano ad Ale, erano i momenti in cui ringraziavo la sanità privata, altrimenti sarebbero toccate a me, il Castri non può sudare per conto suo come tutti gli altri, deve farti partecipare.
Insomma Alessandro s’era fatto conoscere anche lì, una cosa che mi fece impressione era  l’estrema gentilezza di tutto il personale, dal dottore alla signora delle pulizie il paziente è trattato come un cliente da soddisfare, per noi che siamo abituati a rincorrere i dottori nei corridoi e a farci trattare sempre un po’ male, un po’ di gentilezza e disponibilità furono una bella sorpresa.

Al secondo giorno quando arrivai trovai questo sulla porta della stanza:


Mi misi la mascherina un po’ preoccupata pensando che avessero trovato qualcosa nel ceppo del virus che aveva colpito Alessandro, ma il giorno dopo, quando vidi che i dottori in visita non l’indossavano per la seconda volta, la tolsi e iniziai a pensare che ci fosse una precisa volontà nel farlo sentire malato e bisognoso.
Al terzo giorno mi lamentai del fatto che non facessero niente oltre alle flebo di antibiotico, Ale fece sue queste parole coi dottori in visita, questi prescrissero un’altra radiografia al torace per accontentarlo, io mi morsi la lingua.
Al quarto giorno la febbre non passava, quindi cambiarono antibiotico e continuarono con le taniche di paracetamolo.
Al quinto giorno verso sera ci fu l’atteso miglioramento, la febbre rimase sotto ai 37 gradi, ridussero le dosi di paracetamolo sostituendolo con della fisiologica per idratarlo, quel poveretto doveva girare sempre col suo bastone da flebo e la camicia da notte, mi sembrava Gandalf il bianco.
Al sesto giorno era completamente sfebbrato, io fui contenta perché pensavo di poterlo portare a casa, del resto non rischiava certo di prendere freddo uscendo, visto che era un tipico giugno dubaiano coi suoi 40 gradi, e per idratarlo avevo un piano: farlo bere, ma i dottori dissero: domani, se anche domani non hai febbre vai a casa.
Al settimo giorno dissero: domani, oggi è venerdì ed è festa.

Ale sfebbrato, senza flebo, sequestrato in ospedale che lavora.

All’ottavo giorno andai all’ospedale agguerrita, avevo ormai capito che non lo avrebbero fatto uscire mai più, quello non era un ospedale, ma una qualche setta malefica che voleva tenersi il corpicione del Castri per chissà quali scopi. Avevo deciso che me lo sarei riportato a casa quel giorno, a costo di combattere. Feci colazione in silenzio, preparandomi allo scontro, entrai nella sua camera più risoluta che mai e dissi: “prendi le tue cose che oggi usciamo da qua, vivi o morti.”
Grazie al cielo Ale era lì seduto sul bordo del letto con affianco la sua valigina, pronto ad uscire, mi guardò con aria interrogativa, non dovetti combattere, ma tenni stretta la sua mano mentre camminavamo veloci verso l’uscita.

Promisi a me stessa che non ci avrebbero rivisti mai più, ma me ne scordai due anni dopo, quando eravamo al parco, Ale col suo skateboard e io col mio monopattino, correvamo felici come bambini fino a che il Castri non cadde con tutto il corpicione sul polso sinistro.
Quando si rialzò aveva il braccio un po’ a zig-zag, io gli dissi di tenere duro fino in ospedale mentre gli steccai il polso usando il mio cellulare (samsung galaxy MEGA, non a caso si chiama mega, è grande come una piastrella e in quest’occasione dimostrò una volta di più il suo valore) e la sua kefiah, lui non emise un fiato e guidò fino all’ospedale.
La mia steccatura improvvisata fu l’unico conforto che ebbe, per ore e ore, anche dopo raggi e risonanza magnetica, anche dopo che furono diagnosticate 5 fratture e ossa scomposte e la prospettiva di un intervento con viti e fascette in titanio, questo fino a quando finalmente non arrivò l’approvazione dell’assicurazione ovviamente.

Again
Alcuni appunti del chirurgo poco prima dell’operazione

[Per chi se lo domandasse lasciarono libero il Castri dopo solo 2 giorni dall'operazione, anche se da allora ci furono molte visite di controllo e radiografie con cadenza settimanale per un totale di 6, più una risonanza magnetica, tutto in un mese e mezzo, ma forse il loro numero aumenterà, ha da poco iniziato la fisioterapia.

E per chi pensa che io sia un’utopista e che la sanità pubblica sia da abolire perché non funziona sappia che per tutta la strada dal parco all’ospedale, eravamo preoccupati non tanto dal braccio, ma da cosa dire in accettazione quando ci avrebbero chiesto come era caduto… l’assicurazione avrebbe coperto lo skateboard? Nel caso, come potevamo altrimenti giustificare un danno del genere? Questi non sono proprio i primi pensieri che ci sarebbero venuti in mente in Italia.]



martedì 7 marzo 2017

FAQ about Dubai, 10 domande tipiche che mi rivolgono da anni

Come scrissi nel mio primo post: tutti hanno un’idea di Dubai, pur non essendoci mai stati e non avendo mai approfondito neppure su wikipedia. In questi anni me ne rendo sempre più conto soprattutto quando torno a casa e incontro qualche conoscente, dopo i saluti e i convenevoli arrivano in ordine sparso quasi sempre un certo tipo di domande, quindi ho pensato che magari poteva essere utile riunirle qui e dare le risposte una volta per tutte.
Questo non tanto per me, per evitare di annoiarmi troppo nel ripetere sempre le stesse cose, ma per voi, per evitarvi figuracce come quell’americano seduto accanto a me nell’ultimo volo di rientro a Dubai al quale dissi che assomigliava a Van Gogh e non lo conosceva… ok… sono rimasta stupita, ma posso anche giustificare una lacuna così, però quando mi chiedi quale sia il mio idioma e ti rispondo “italian”, tu non puoi dirmi “ah! Vieni dalla Francia!” 
[10 secondi di silenzio per le università americane, sì, era laureato ed un esperto di security che andava ad offrire la sua consulenza non so in quale paese, Dubai era solo uno scalo]
Quindi considero questo post come un servizio pubblico. Mi scuso per coloro che mi parlano o leggono abitualmente se queste cose le hanno già sentite, comunque le ho sentite più io, sappiatelo. 

La numero 1 in assoluto, vincitrice di molti premi come “Luogo comune sempre affollato” o il “Premio Simpatia Matteo Salvini” è: ma tu devi mettere il burka?

Risposta: NO, enne oooo. 
Nessuno lo deve mettere, non tutti i paesi arabi sono l’Arabia Saudita, è un po’ come dire, che in Inghilterra ci sono i bidet solo perché è Europa, o che io sono francese perché parlo italiano.
A questo punto però so che un NO non basta, non ne capisco il motivo, ma so per esperienza che non basta mai, nessuno si arrende al “no, non devo indossare il burka”, ci rimangono un po’ male, perché con aria delusa mi chiedono: “ma il velo si, giusto?”.
SBAGLIATO. Non ci si deve coprire la testa o il viso se non si vuole farlo, questo riguarda me come riguarda le indigene, ho osservato che la maggior parte di loro vogliono farlo, per loro è sinonimo di eleganza e signorilità, non lo fanno solo perché il corano indica di coprire il capo.
A questo punto qualcuno si arrende, evidentemente scontento, allora io per rincuorarlo aggiungo qualcosa di fortemente esotico tipo “la benzina costa 30 centesimi al litro!” o “i maschi vanno in giro con la gonna”, solo così si consola il poverino facendosi una sua risata con un’espressione vagamente sollevata.
#1 Ricapitolando: come posso vestirmi a Dubai?
Risposta: come vuoi nei limiti della decenza, minigonne ok, topless no.

La seconda domanda più gettonata rivela una certa ansia di cui dovremmo prendere atto prima o poi. "Ma a Dubai si possono bere alcolici?"

Risposta: sì, tranqui.
Gli alcolici non sono immediatamente reperibili come in molti altri paesi, ma non devi faticare per trovarne.
Vi dico che io, femmina, vado a bere alcolici gratis ogni volta che lo desidero, e spesso indosso scollature generose o gonne succinte o anche in jeans e… state ancora pensando a “gratis” vero?
Si non pago una svanzica, nada, e questo non perché io abbia particolari privilegi se non quello di essere femmina, ma perché a Dubai esiste la Ladies Night, una sera a settimana, a discrezione del locale, le femmine possono bere da 1 a 5 drinks (ma pure di più in certi posti) e mangiare con sconti che variano dal 30 al 50% se lo desiderano.
#2 Domanda: a Dubai si trovano gli alcolici?
Risposta: sì, quando arrivate potete liberamente comprarne al duty free all’aeroporto e portarveli a casa/hotel; li troverete anche in numerosi ristoranti e locali e, se siete femmine, potrete bere gratis alle ladies night varie (fate una ricerca su internet per verificare dove e quando) vestendovi come vi pare. 

Altra domanda incessante riguarda il maiale. Ho capito bene che ci tenete al salame e vorrei rassicurarvi che esistono molti supermercati con un’area, sparata, ma segnalata, dove potrete riempire il carrello di prosciutto e salsicce.




#3 Domanda: a Dubai posso trovare prosciutti e salami?
Risposta: sì. 

Subito dopo questa, normalmente mi viene sparata un’altra domanda tipica che io trovo pazzesca: “dove vai a fare la spesa a Dubai?”

Vi garantisco che mi viene posta molto più spesso di quante immaginate, io davvero non so come nella testa di alcuni alberghi il pensiero di una città piena di grattacieli, ma allo stesso tempo di una città dove per comprare da mangiare io debba andare al souk dove vendono capre vive e radici polverose di terra.
#4 Domanda: dove vai a fare la spesa a Dubai?
Risposta: al Carrefour, o al Geant, o in altri supermercati dove sì, credetemi, trovo la mozzarella di bufala, il caffè Lavazza, la pasta Rummo o  il Parmigiano Reggiano. I prodotti di cibo italiani sono numerosissimi nei vai supermercati, soprattutto quelli biologici, c’è pure una sorta di Natura Sì, che qui si chiama Organic, anzi adesso è pure Biodynamic, dove si possono comprare persino gli stracci della polvere in cotone biologico anallergico tinto con colori naturali o il succo di baobab bio. (il terzo weekend del mese applica lo sconto del 20% su tutti i prodotti) 

#5 Finite le ansie culinarie è il momento di altre domande favolose tipo: “ma lì cosa fate?

Ecco io ho sempre un momento sgomento quando mi viene posta, perché non capisco bene cosa voglia dire questo “cosa fate”, arriva in un punto della conversazione in cui è chiaro che non si riferisce al lavoro, ma alle attività di svago, e io mi domando se a quelli che vivono a Berlino la fate sta domanda…
Non ho mai osato approfondire e di solito la mia mente incomincia ad elaborare di come immaginino queste persone la mia vita qui, forse credono che faccia le mie passeggiate al mercato delle bianche o che organizzi i miei picnic nei pressi di un pozzo di petrolio; poi ho capito che vogliono ancora un po’ di esotico folclore, quindi mi spiace sempre dover rispondere con cose banali tipo: andiamo al mare; visitiamo fiere d’arte e design; facciamo escursioni nel deserto o nelle montagne a nord del paese; saltuariamente andiamo a ballare o a berci una birra; andiamo a concerti o al mercatino delle pulci; pattiniamo sulle lunghissime piste ciclabili, insomma a Dubai si fa tutto quello che si può fare in una città qualsiasi, più qualcosina di particolare come andare alla corsa dei cammelli. [per info clicca qui]

#6 Altra domanda tipica: a Dubai se sgarri ti tagliano una mano?

La sicurezza a Dubai è più una cosa di cui si gode piuttosto che qualcosa da temere, l’ho detto tante volte, ma se non sei un serial killer o un borsaiolo, vieni sereno a Dubai.
Esempio di trasgressione a cui ho assistito: eravamo in macchina con Ale e i miei genitori, stavamo andando al mare, Alessandro ad un certo punto vede un bel parcheggio che si libera alle nostre spalle, fa una manovra ardita precorrendo un pezzettino di strada contromano, ma proprio lì c’era una macchina della polizia che subito ci ferma.
Prima che il poliziotto apra bocca Ale inizia subito con la sua micidiale arma: la favella, il poliziotto fa sì con la testa, ma ha dipinta in faccia un’espressione del tipo “parla quanto vuoi ma ho qui una bella multa con scritto il tuo nome”.
PZZZZZZZZZZZZZZZZZZ, sento il suono del finestrino elettrico posteriore che si abbassa, è mio padre che vuole vedere bene un agente dell’ordine straniero all’opera, i vetri della macchina sono oscurati, quindi abbassa il vetro e si affaccia con il suo cappellino di Pensionati per la città e l’adorabile espressione asimmetrica che un ictus gli ha regalato tanti anni fa.
Il poliziotto smette di parlare guardando mio padre intenerito, il Casti approfitta immediatamente del momento e dice “sto portando i miei genitori al mare…” facendo la faccia del gatto con gli stivali di Shrek. 
Ecco che la famigerata severità delle forze dell’ordine emiratine si palesa, la famiglia qui è qualcosa di davvero sacro, quindi il poliziotto non può fare altro che ammonire Alessandro lasciandoci andare, certo non prima di aver salutato mio padre con un sorriso.
La volta precedente, non ricordo bene che tipo di infrazione avevamo commesso, ma eravamo soli io e lui e la multa è stata fatta regolarmente. 

Altro preconcetto tipico riguarda il denaro e i costi. Dubai la si immagina una città in cui le case hanno i rubinetti d’oro, sì, senz’altro sarà così, ma credo sia una questione che riguarda l’1% delle abitazioni.

#7 Dubai è cara?
Risposta, personalmente ritengo che Dubai sia nella norma con alcune eccezioni.
Alcuni esempi ad estremi opposti:
pane ai cereali con semi di girasole e zucca: 4.50 euro al kg
birra media alla spina in un locale medio: 10 euro
biglietto metropolitana: dipende dalla lunghezza della tratta, da minimo 1 euro a massimo 2,10 euro.
Taxi, benzina moooooooolto meno, se si è in due o più può risultare  più conveniente prendere il taxi che i mezzi pubblici.
Lattuga e internet a casa: molto di più, la lattuga costa 4 euro un cespo piccolo, mentre l’abbonamento a internet a casa costa circa 90 euro, anche se compreso hai canali televisivi da tutto il mondo, di cui 3 italiani. 
Quando venne qui mio padre si impuntò nell’impresa di scorrerli tutti, dopo canali di fitness  coreano e il Nathional Geographic in farsi trovò Euronews, quindi i canali in italiano ora so che sono 4. 

Ma mi vengono poste anche domande sensate eh, tipo:#8 In che periodo dell’anno è meglio visitare Dubai?

Risposta: a Dubai si vive un’eterna estate con picchi di caldo che arriva a 50° e di freddo che scende a 14°.
Gennaio e febbraio: sono i mesi in cui è più probabile che piova, di sera ci vuole una felpa o un maglioncino, ma di giorno il sole scalda e si raggiungono mediamente dai 24° ai 28° nelle ore più calde. Il mare è freddino per la norma, perché è solo 21° circa, ma ci si abbronza.
Tra marzo e aprile è un periodo fantastico, le giornate sono calde e le sere sono fresche, si parla di una massima di 33° mediamente e di una minima di 26° circa. L’umidità e l’afa non si sono ancora affacciate e la temperatura del mare è di circa 24°.
Maggio è un mese random, può essere meraviglioso come aprile solo leggermente più caldo o può anticipare l’estate terribile che arriva in giugno. Quindi le temperature si alzano con massime di 38/40° e minime di 33° circa. Il mare è stupendo però, coi suoi 29°.
Giugno, luglio, agosto e settembre non sono mesi per tutti, l’umidità marina rende tutto soffocante, il caldo è serio, le massime in agosto arrivano a 50°, ma negli altri mesi si rimane sui 40/45°, ho visto minime notturne di agosto a 47°, negli altri mesi si raggiungono i 37/40°. Il mare va dai 32° di giugno ai 35° di agosto e settembre.
Ottobre e novembre sono altre due mesi ideali per godersi Dubai, l’afa viene spazzata via da arietta gentile e respirabile, il caldo è piacevole sia di giorno che di sera. Il mare ancora una delizia con i suoi 29/30°.
Dicembre è un mese di passaggio, le temperature calano a 33° di massima fino a 25° di minima notturna, il mare è sui 25°, si va in spiaggia tranquillamente.
Quindi fate le vostre valutazioni e cercate di organizzare la vostra visita nel periodo che più vi aggrada.
Comunque non è vero che il caldone di qui lo si può sopportare solo se ci nasci in questo paese, noi alla fine ci siamo adattati e viviamo la città anche in agosto, ma anche i genitori di Alessandro, quando vengono a trovarci, se ne stanno tranquilli in spiaggia con 47° all’ombra senza cappello, ma loro sono siciliani, gente abituata a sole e vulcani.
Anche se una volta, non ricordo se era luglio o agosto, stavamo venendo via dalla spiaggia verso l’ora di pranzo, ci siamo fermati a fare la doccia prima di cercare di vestirci (indossare indumenti in questo periodo è un’acrobazia in bilico nell’unico attimo in cui puoi essere vagamente asciutta, tra l’asciugarsi dopo la doccia e l’iniziare a sudare) così, nel tentativo di srotolare la canottiera appiccicata alla schiena, abbiamo notato una coppia di italiani che alternava momenti di grande entusiasmo a momenti di mollezza catatonica, indovinate in quale istante scattavano i loro selfie?
Ovviamente abbiamo attaccato bottone, erano una coppia partenopea che aveva approfittato dell’offerta di un’agenzia di viaggi e non aveva la minima idea di quanto avrebbe scontato quello sconto. 
Quando hanno detto lamentandosi “ma noi ci aspettavamo che fosse una città dove si può camminare, ad aprile siamo stati a Parigi e ce la siamo girata tutta a piedi!”, noi ci siamo guardati negli occhi senza riuscire a replicare, troppe erano le cose da dire… la loro considerazione era scaturita perché ci avevano chiesto in che direzione fosse la Vela (Burj Al Arab), i poveretti volevano andarci a piedi…
Da lì erano oltre 5 km, a piedi, ad luglio, a Dubai, all’ora di pranzo… io vi dico che per raggiungere la macchina si deve andare lentamente, perché gira un po' la testa, se non hai il cappello senti fisicamente il tocco del sole sulla sommità del cranio e non ha la mano leggere il sole.

La #9 più che una domanda è un’affermazione: a Dubai non c’è la natura.

Abbiamo tutti fatto le elementari, sappiamo che ci sono differenti ecosistemi nel mondo, quindi la natura c’è solo che è diversa dalla nostra lussureggiante in Europa.
Quella di Dubai è un deserto ricco di bassi arbusti spinosi, sovente si vedono anche alberi le cui radici a volte vengono scoperte dalle imperiose mani del vento sulla sabbia, rivelando così architetture segrete. 
Ci sono diversi tipi di alberi, alcuni assomigliano a polverosi salici piangenti, altri a ombrelli aperti, ma ne ho visti alcuni dal fusto alto e le foglie verdi e carnose.
Ci sono anche dei fiori che crescono nella sabbia, hanno foglie rotonde e ampie e corolle con  petali appuntiti che vengono considerati doppiamente sacri, sia per l’eroicità di fiorire in un deserto, sia perché rappresentano simbolicamente i 5 pilastri dell’islam, uno per ogni petalo.



E ci sono volpi, gatti selvatici, gazzelle, oryx, lucertole e scarabei. La meraviglia del deserto è che anche se durante il giorno hai patito i 50°, la sera diventa freschino, l’escursione termica dona un sollievo di cui in città non godi minimamente.


Come #10 e ultima ho tenuto un altro luogo comune: a Dubai i soldi te li portano con la carriola.

Nel primo decennio degli anni duemila pensare che esistano posti dove fai il normale e ti coprono di soldi è romantico come le cartoline di fine 800 che mostravano alberi carichi di monete, descrivendoli come flora autoctona tipica delle Americhe. 
La cosa vera è che a Dubai magari è più semplice trovare lavoro se sei professionalmente specializzato, come è favolosamente vero che qui vige la meritocrazia piuttosto che il nepotismo. Così come è vero che mettersi in proprio qui è molto più semplice ed economico che in Italia, senza parlare delle tasse.
Ma nessuno ti da niente per niente, da nessuna parte. Devi essere bravo, devi avere le idee giuste, devi essere un passo avanti agli altri, dare di più, in Italia neppure questo basta, qui si. 
Per noi abituati a stare in un angolo e vedere andare male tutto, noi che quando poi abbiamo espresso le nostre idee e soluzioni le abbiamo viste derise o  rubate; per noi che mai uno straordinario è stato pagato e anzi, lo stipendio sembrava quasi una regalia immeritata, ecco, noi formati in questo campo di battaglia qui, ce la sbraniamo la concorrenza dubaiana.
Ma dovete venire qui, dovete farlo 'sto salto nel buio, lo specifico perché in tanti mi hanno scritto in questi anni chiedendomi: non è che mi trovi clienti per il mio prodotto? Dovresti verificare le questioni di compatibilità tecnologica, non so se la presa elettrica funziona pure lì, poi cercare clienti, poi fissi degli appuntamenti, poi chiaramente arrivo io a chiudere l’affare e ti do una percentuale che decideremo.
Ah belloOh!!!! Anche ammesso che lavori gratis per te un paio di mesi cercando il modo di farti guadagnare mentre stai tranquillo a casa tua con la tua famiglia, poi come pensi di portarteli i tuoi prodotti in questo paese? Te li trascini nel trolley da aeroporto ad aeroporto?
Oppure è successo che si stia a parlare tutta la sera della crisi di lavoro in Italia, che ascolti i lamenti mischiati a “vi invidio, magari potessi farlo anche io”, poi [vi giuro è successo più di una volta] gli proponi un lavoro e subito l’atteggiamento muta in un: voglio compenso raddoppiato, vitto, alloggio, volo una volta al mese di rientro, capisci… ho qui il corso di panificazione e ci tengo a non mollarlo… anzi guarda, vanno bene solo i soldi, ma sto a casa, che io sono uno che lavora bene nella sua stanzetta… parliamo su skype! Che problema c’è, il fuso orario non è un problema dai…
Ah belloOh!!! Tutti quanti vorremmo stare in Italia, guadagnare come a Dubai, avere un inverno come alle Maldive, bersi un caffè nei coffeeshop di Amsterdam, avere la botte piena e la moglie ubriaca!
Allora stai a casa a praticare la lamentatio, oppure rifletti sulla tua condizione e comprendi che in fondo non stai così male, che forse sei fortunato e felice dopotutto, le strade sono due: o muovi il culo o ti godi ciò che hai.
[scusate lo sfogo]

domenica 28 febbraio 2016

Big news from Big Mo

Ancora oggi, dopo 5 anni di vita negli Emirati Arabi Uniti, quando torno in Italia incrocio sempre qualcuno che mi chiede se a Dubai sono costretta a indossare il velo, se sono libera di camminare per le strade da sola o se posso bermi una birra da qualche parte nella città.
Da una parte mi stupisco di queste domande, dall'altra comprendo quanto sia grave l’ignoranza. Sentiamo notizie spaventose dal medio oriente e facciamo di tanti paesi diversi un'unica entità di cui in effetti non ci interessa un granché, dal momento che in pochissimi fanno lo sforzo di informarsi su come stiano veramente le cose.
Spesso, quando parlo con gente che non è mai stata negli UAE, mi trovo nel ruolo di dover difendere questo paese da preconcetti e idee assurde e non lo faccio perché, come mi sento dire, sono assoggettata dal sistema, lo faccio per amor del vero e perché credo che la disinformazione sia un crimine, visto che spesso porta alla disumanità.

Oggi ho letto un annuncio di Sua Altezza lo Sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum [se ti sei stupito del “sua altezza” chiediti perché chiami Eminenza i cardinali, Eccellenza i vescovi, Magnifico il rettore dell’università, ma soprattutto Onorevoli chi sai tu], che in molti chiamano con affetto Big Mo, dove informa dell’istituzione di alcuni nuovi Ministri: il Ministro della Felicità, il Ministro della Tolleranza, il Ministro del Futuro e il Ministro della Giovinezza che ha solo 22 anni.

Perché nominare un Ministro di soli 22 anni? "Senza l'energia e l'ottimismo dei giovani la società non può svilupparsi e crescere, anzi, tali società sono condannate. Quando i governi respingono i propri giovani e bloccano il loro cammino verso una vita migliore, stanno chiudendo la porta in faccia all'intera società". Scrive Big Mo, e ancora: "Noi siamo orgogliosi dei nostri giovani. Noi investiamo nel loro potenziale con attenzione perché sono il nostro futuro. Noi crediamo che siano più veloci nell'apprendere ed elaborare perché sono cresciuti con strumenti e tecnologia che noi non avevamo alla loro età. Noi gli affidiamo la guida del nostro paese ad un nuovo livello di crescita e sviluppo, ed è per questo che abbiamo nominato un ministro della loro età e indetto uno speciale consiglio per i giovani."
Anche noi abbiamo qualcosa di simile, abbiamo il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha diversi Dipartimenti, tra cui il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, gestito da Calogero Mauceri classe 1962, anch’esso cresciuto tra strumenti e tecnologie tipo citofono, lavatrice e calcolatrice a pile.

E se pensate che siano solo chiacchiere fatevi dire che non ho mai visto un paese con tanti sevizi gratuiti a disposizione di giovani e non, per qualsiasi livello di passione abbiano, qualche esempio:
sei appassionato di sport? 4 skatepark gratuiti, chilometri e chilometri di pista ammortizzata per correre, macchine da fitness gratuite lungo la stessa, 150 km di piste ciclabili [in una sola città!!], bike sharing, eventi speciali tipo il Freecar Day dove chiudono le strade per farti andare in bici, o il weekend dello yoga,



o la Spartan Race una sorta di triathlon in cui si suda e ci si inzacchera di brutto. E questi sono solo quelli che conosco io, un’immigrata non proprio appassionata di sport.

Per farvi un altro esempio devo raccontarvi della giornata di ieri, Alessandro in antichità amava correre sullo skateboard e dopo 25 anni gli è tornata la voglia, [sì, lo so, l’accostamento Castri-skate suona strano, anche io all’inizio mi immaginavo questo:


ma poi invece si è rivelato bravo, come sempre il Castri attinge a risorse magiche nascoste e stupisce tutti.]
Probabilmente in Italia questo non sarebbe mai successo, ma un giorno del mese scorso stavamo passeggiando sullo splendido lungomare di Dubai e ci siamo imbattuti nel nuovo skatepark:





gratis e aperto a tutti indiscriminatamente.
Capite che tipo di stimolo possano ricevere un ragazzino e un Castri?
Ma siccome il mio adorato orso è prudente e timido, preferisce posticini più tranquilli dove poter fare pratica senza aver paura di cadere su qualche fanciullo/a in pattini uccidendola/o all’istante, quindi dopo una breve ricerca su internet siamo capitati qui:



Questo posto è nel cortile di un edificio interamente dedicato all’arte, previa iscrizione puoi accedere a diversi laboratori dove puoi usare: computer di ultima generazione, stampanti 3D, laboratorio di serigrafia e taglio laser, studio di ripresa fotografica e camera oscura per la stampa, laboratorio di pittura, stampa tessile e laboratorio orafo. E se tu volessi fare qualcuna di queste cose, ma non ne hai le basi, il posto organizza anche dei corsi. Tutto questo l’ho visto coi miei occhi, cercando un bagno, ho aperto ogni porta, ho visitato ogni stanza, senza che nessuno mi fermasse… perché chiaramente io e il Castri eravamo lì abusivamente, senza aver pagato nessuna quota, ma a noi per il momento interessava solo la pool della foto sopra, anche se credo che tornerò per iscrivermi al laboratorio di taglio laser e stampa tessile.

Tra l’altro tra 2 settimane inizia il mese che Dubai dedica all'arte, fiere, esposizioni, concorsi, congressi e dibattiti, una città che diventa una galleria, interi quartieri allestiti come un museo a cielo aperto, dove se vuoi puoi proporre i tuoi lavori, venderli o mostrarli solamente.
Mi limito a questi due esempi perché in effetti il Ministro non ha ancora iniziato a lavorare, vi farà sapere poi cosa succederà.

Nel suo annuncio lo Sceicco di Dubai continua dicendo: “Abbiamo anche imparato da centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi nella nostra regione che un’ideologia culturale religiosa bigotta e settaria è il carburante per una rabbia infuocata. Non possiamo permettere che ciò accada nel nostro paese. Abbiamo bisogno di studiare, insegnare e praticare la tolleranza, e di infonderla ai nostri figli attraverso l’educazione e il nostro esempio.
Per questo hanno nominato un Ministro alla Tolleranza, “…che fornirà un esempio rilevante per i nostri vicini.
E continua “La tolleranza non è uno slogan, ma una qualità che noi dobbiamo amare e praticare. […] Non ci può essere un futuro luminoso per il Medio Oriente senza una ricostruzione intellettuale che ristabilisca i valori di apertura ideologica, di diversità e accettazione dei punti di vista altrui, sia intellettuale, che culturale o religioso.

Ecco si, mi pare che pure noi si abbia una cosa simile, un certo Salvini, Ministro dell’Intolleranza ad honorem, che poi è in numerosa compagnia purtroppo.

Certo un Ministro che si dedichi al Futuro suona poetico e ingenuo, quasi mi fa sorridere, di cosa mai potrà occuparsi? Tarocchi e oroscopi? Sogni premonitori?
No, servirà a slegarsi per sempre dal petrolio. Già ora, a Dubai, la maggior parte degli introiti economici non derivano dal cosiddetto oro nero, ma per lasciarsi alle spalle definitivamente quello che è stato senz’altro un’immensa fortuna, ma anche un grande limite, ora il neo Ministro avrà a disposizione qualcosa come 300 miliardi di dirham (circa 75 miliardi di euro) così da implementare un’economia alternativa.
Qualcuno dirà: “sono tutti bravi con risorse come il petrolio”, vorrei ricordare loro che a Viggiano, in provincia di Potenza, si estraggono ogni giorno “…3,4 milioni di metri cubi di gas e l’equivalente di 81.868 barili di petrolio (ogni barile contiene 159 litri). Sono queste cifre a fare di questa valle “il più grande giacimento onshore dell’Europa occidentale”, come la definisce l’Eni. Per paradosso, Viggiano è il comune petrolifero più ricco d’Europa in una delle regioni più povere d’Italia.” [fonte: http://www.internazionale.it/reportage/2015/08/15/basilicata-petrolio]
Qualcuno di voi ha visto questa ricchezza ridistribuita in qualche modo?
Pensate davvero che in Italia, anche senza ricorrere al petrolio, noi non si abbia alcuna ricchezza? Sapete che qui un litro di acqua minerale costa 4 volte un litro di benzina? Secondo voi quale delle due vale di più? Qual è il paese più ricco, quello desertico dal quale sgorga olio nero o quello lussureggiante la cui terra regala ogni ben di Dio?

Il 17 aprile in Italia si voterà un referendum contro le trivellazioni [per info], quando andrai a votare, fai i tuoi ragionamenti e, se vuoi, considera anche le parole di Mohammed Bin Rashid Al Maktoum: “…[l’investimento] ha l’obiettivo di prepararci a una diversa economia che libera le generazioni future da un mercato sempre più fluttuante. Il raggiungimento di questo obiettivo richiede di riconsiderare completamente il nostro sistema legislativo, amministrativo, economico per allontanarsi dalla dipendenza dal petrolio. Abbiamo bisogno di un’infrastruttura solida e adeguata per costruire un’economia nazionale sostenibile e diversificata per i nostri figli
Forse il petrolio ha fatto il suo tempo, dobbiamo cambiare molte cose, non ultima la mentalità, per immaginarci un futuro sostenibile.
Oppure possiamo fare come i paesi che non voglio aderire al G20 dicendo: “voi avete inquinato quanto volevate e vi siete arricchiti, ora tocca a noi”

Ne manca solo uno, il Ministro della Felicità… pazzesco eh? Dare così tanta importanza a qualcosa che troppo spesso viene considerata effimera.
E qui Big Mo spende le parole più rivoluzionarie, che evocano figure come il nostro Sandro Pertini.
Io sto scrivendo per mandare un messaggio ai per i governi della nostra regione (Medio Oriente n.d.T.) e altrove, perché è necessario che rivedano i loro ruoli. Il ruolo di un governo è di creare un ambiente in cui le persone possono realizzare i loro sogni e le loro ambizioni, non di creare un ambiente che il governo possa controllare. Il punto è enpower, dare potere alle persone, non mantenere il potere su di loro. Il governo, insomma, dovrebbe coltivare un ambiente in cui le persone si creino e si godano la propria felicità. […] Focalizzarsi sulla felicità è fattibile e legittimo. È per questo che ci deve essere un Ministro della Felicità […] Noi cerchiamo di creare una società dove la felicità del nostro popolo è di primaria importanza, per sostenere un ambiente in cui si possa veramente fiorire. Speriamo che la nostra formula avvantaggi anche altri paesi della regione. È semplice: basare lo sviluppo nazionale su valori fondamentali, guidati da giovani focalizzati su un futuro in cui tutti raggiungono la felicità”.
Un compito arduo per questo Ministro, è vero, ma anche molto entusiasmante!
[aggiungere alla lista dei desideri subito dopo "diventare papessa e restaurare il cattolicesimo", diventare Ministro della Felicità]

Ecco le novità di questi giorni da Dubai.
E no, non sono costretta a indossare il velo, né io e neppure una ragazza dubaiana.
E posso andare in giro da sola e bere una birra in molti posti.


A chi interessa qui c’è l’annuncio completo in inglese: 
https://www.linkedin.com/pulse/why-ministers-happiness-tolerance-youth-future-bin-rashid-al-maktoum 




martedì 29 settembre 2015

Oman. Salalah, percezioni.

5 minuti fa vi avrei detto che l’Oman è grande un paio di volte l’Italia, invece chiedo a quello spione di Google e pare che le aree dei due paesi siano quasi uguali (Italia 301.338 km², Oman 312.460 km²).
L’idea di essere sempre gli stessi è una chimera e vivere in una città-stato come Dubai ha cambiato molte delle mie percezioni, il senso dello spazio o il senso del freddo ad esempio.
Su una superficie paragonabile a quella italiana, gli omaniti vivono in poco più di 3milioni, noi ci dividiamo il nostro paese in oltre 60milioni, ora potete immaginare quanto spazio aperto puoi percorrere in Oman senza incontrare nessun essere umano. 
L’Oman è a due ore di macchina da Dubai, ci andiamo spesso, ma questa volta però abbiamo preso l’aereo, direzione: Salalah, una cittadina a sud molto vicino al confine con lo Yemen.
Guido è venuto con noi. [Guido è un incrocio tra un lupo e un leone, l’unico che riesce ad esporsi rimanendo in ombra, è alto con gli occhi chiari come un vichingo e con un osso in più nel piede destro.
Fondamentalmente è un taoista governato dal sole, ma anche dalla luna, passa dalle vette agli abissi in un sospiro e viceversa e, quando si appassiona a qualcosa,  il suo traguardo è una lepre che non si ferma mai.
Insieme amiamo salvare animali, fotografare, scovare nuovi posti e situazioni particolari, lavorare e parlare di filosofia con toni accesi.]
Salalah è stata protagonista assoluta nella storia più antica, ma è passato tanto tempo e, visitandola ora, sembra che quei giorni siano solo un mito, eppure questo posto era il punto di unione di più mondi: lo scambio di spezie provenienti dall’India, della mirra dall’Africa con l’incenso della regione e l’oro dall’occidente.
Se potessi viaggiare con una macchina del tempo non sceglierei il futuro, ma il passato, e di certo una capatina qui me la farei, penso che la mia percezione di cosmopolitismo subirebbe delle variazioni importanti.
Può sembrare un luogo remotissimo, ma è molto più connessa a noi di quel che immaginiamo, quando diciamo “incenso” subito il rimando è ai fumi sparsi in qualche chiesa, ma ben prima del Cristianesimo da Salalah partivano migliaia di tonnellate di incenso destinate a profumare le abitazioni dell’impero romano. Qualcuno scrisse che Dio aveva ordinato di usare incenso e legni profumati solo per il divino, per i santi, ma mai per godimento personale, pena il bando dal proprio popolo (Libro dell’Esodo, XXX, 34-38), ora, il Signore non se ne abbia a male, ma io e il Castri ne bruciamo in abbondanza per pura delizia privata.
Perdonate questa introduzione pieroangeliana, ma devo anche raccontarvi che Salalah è la capitale di una regione chiamata Dhofar, che significa verde, è uno di quei luoghi magici che nel giro di pochi giorni si trasforma da deserto roccioso, con scheletri di alberi secchi, a colline umbre verdi e lussureggianti.
Qui Demetra la fa grossa, per 2 o 3 mesi l’anno l’aria piano piano si rinfresca, una nebbia argentina gonfia di rugiada si diffonde nell’aria e d’improvviso: pioggia! Ma pioggia di quella che ogni goccia è uno schiaffo, pioggia monsonica furiosa che si alterna capricciosamente durante la giornata, tanta che si raccoglie in fiumi, che ingrossano laghi, che nutrono polvere e sassi fino a tramutarli in erba e fiori.
Alberi polverosi e sopiti dopo mesi si risvegliano in boschi freschi, gemme smeraldine si affacciano ovunque profumando l’aria e le capre saltellano felici battendosi il 5 con lo zoccolo. (che a ‘sto punto è 1 e non 5)
Quando arrivammo noi tutto questo era alla primitiva fase della nebbia argentina e dell’aria fresca, questa cosa della rugiada è molto più piacevole ammirarla come goccioline di mercurio sui petali dei fiori che averla costantemente in faccia, su capelli e vestiti, in ogni caso è stupefacente notare come inspessisca l’aria e nasconda il cielo.
Ma prima di questo devo raccontare dell’aeroporto. Atterrammo che era quasi l’una e, dovendo ritirare la macchina affittata, raddoppiammo il passo per raggiungere il controllo passaporti prima possibile, col timore di trovare l’agenzia chiusa per pranzo. Superammo agilmente la folla un po’ disorientata e rimbambita dal viaggio, raggiungemmo lo sportello del visto e iniziammo a compilare il modulo necessario per il rilascio.
Nel frattempo la folla ci raggiunse, notai che erano quasi tutti giovani pakistani arrivati lì sicuramente per lavorare, lo so che sono uomini fatti e finiti, sani e consenzienti, ma a me fanno sempre una tenerezza che me li porterei a casa tutti. Hanno un’aria che quasi sembrano chiedere scusa del fatto di esistere, stanno tutti vicini, appoggiandosi l’un l’altro come docili erbivori in cerca di coraggio e protezione, e ti guardano con occhi giganti e scuri dentro i quali vedi chiaramente la loro indole remissiva di cui presto qualcuno approfitterà.
È per questo che quando due di loro si avvicinarono ad Ale per spiare come compilava il modulo, questi non poté resistere a lungo e, dopo aver cercato inutilmente di spiegare, mise da parte ciò che stava facendo, prese foglio e passaporto di uno dei due e iniziò a scrivere.
I due si sedettero affianco al Castri, rimanendo a guardarlo in silenzio, esattamente come facevano mentre lui cercava di dire loro “ecco, qui scrivi il tuo nome…”: nessuna reazione, niente, neppure un cenno del capo, solo un perpetuo sorriso quasi impercettibile e due grandi occhi neri spalancati; non parlavano inglese, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di dirlo in qualche modo.
Quando gli altri pakistani videro quello che stava facendo Alessandro si avvicinarono piano quasi esitando, ma inesorabilmente, a gruppi di 3 o 4 fino a circondarlo completamente.
Sebbene fossero tutti appoggiati l’uno all’altro, avevano lasciato al Castri un metro quadro di spazio vitale d’azione che nessuno delle 30 persone osava profanare, nel silenzio assoluto Ale compilava moduli sillabando i lunghi e astrusi nomi, date e luoghi mentre loro lo osservavano da vicino: i capelli, i vestiti, le infradito (che si era già tolto), come se non avessero mai visto un uomo bianco, anche se orsetto dal pelo bruno.
Ecco questo è uno dei motivi per cui io me lo sono sposato il Castri, perché compilò tutti i moduli, uno alla volta, senza perdere la pazienza, o la speranza di insegnare loro come si faceva, e infatti alla fine arrivò quello che comprese e lo aiutò, arrivò persino un altro pakistano, ricco e ben vestito, che abbandonò la coda al controllo passaporti e si sedette a compilare moduli anche lui.
Così rimanemmo solo noi, che passammo per ultimi, senza fretta ormai, con la rassegnazione di trascorrere la pausa pranzo davanti alla porta chiusa dell’agenzia in attesa della nostra 4x4, senza ricordare che eravamo in Oman! La terra della gente stupenda, che mai se ne andrebbe a pranzo sapendo di dover consegnare una macchina a dei turisti, infatti eccolo lì, il signore dell’agenzia, col suo vestitone candido a salutarci mentre gli andavamo incontro.

L’AMICHEVOLE DELLA NAZIONALE DI SCACCHI
Arrivammo sul litorale con una mezza idea di goderci una di quelle splendide spiagge viste in foto e invece ci trovammo in un paesaggio virato all’acciaio, onde di un mare ruggente mordevano la spiaggia scomponendosi in milioni di goccioline leggere che volavano nell’aria raggiungendoci nonostante fossimo svariati metri lontani dalla riva; ok niente bagno, spostammo lo sguardo e scorgemmo delle figure in lontananza parzialmente inghiottite dalle nebbie di Avalon.
Quando le raggiungemmo scoprimmo che erano avventori di un piccolo bar che giocavano a scacchi seduti sul lungomare.
Per chi conosce il Castri sa che una visione del genere fa scattare in lui un istinto primordiale, già nel ventre materno passava il tempo studiandosi le mosse, spesso ama descriversi come scacchista prima che come essere umano.


L’ospitalità omanita non tardò a manifestarsi, ci chiesero da dove venissimo, cosa facessimo lì e… se volevamo giocare a scacchi, fu come premere un pulsante sulla schiena di Ale che rispose: “sono uno scacchista del circolo X…” (al Castri non basta un “sì”, lui deve sempre raccontare la sua storia), senza ascoltare il signore gli fece segno di sedersi, sorridendo, l’altro gli cedette il suo posto e così iniziò Italia-Oman.

La scena aveva un che del settimo sigillo di Bergman: ci sono questi due anziani omaniti vestiti di bianco, su un tavolino bianco con lo sfondo grigio biancastro di mare e spiaggia e Alessandro di nero vestito, con capelli, baffi, occhi e occhiali corvini: bianchi contro neri sulla scacchiera e sulla spiaggia.
Sulla carta l’omanita disponeva di un evidente vantaggio: l’esperienza dovuta all’età e al tempo a disposizione senza che la vita gli avesse chiesto di timbrare un cartellino in qualche ufficio, dall’altra parte invece il Castri era un apparente pivello occidentale da castigare.
Nessuno parlò, le mani si alternarono sulla scacchiera spostando pedine, incominciarono i primi attacchi, a quanto pareva l’omanita non aveva tempo da perdere e voleva impartire al più presto una bella lezione all’azzurro di fronte a lui. Il nostro cinghiale invece si mostrò più meditativo, sembrava quasi in difficoltà mentre si tormentava il mento con un massaggio costante.
L’anziano scacchista si pappò l’alfiere del suo avversario e rise, una di quelle risate di sicurezza, si sentiva che l’aveva in gola da quando Ale s’era seduto, la risata di una conferma soddisfatta.
Alessandro senza alzare gli occhi mangiò la regina, la risata si troncò e scivolò nuovamente da dove era venuta, solo allora il nostro azzurro alzò lo sguardo e il suo sorriso suonava più come un “sorry”, che umiltè!
L’omanita non si abbatté, tornò a concentrarsi e ad attaccare impavido, ad ogni mossa voleva dare scacco, e ad ogni scacco l’azzurro si difendeva fino a che, quasi dispiaciuto, il Castri piazzò una forchetta. L’omanita rimase di stucco, aveva già perso cavallo e regina e ora doveva decidere tra alfiere e torre.
Silenzio e immobilismo, Ale smise persino di tormentarsi il mento.
Fu allora che l’anziano campione arabo piazzò la mossa definitiva: con un rapido slancio la mano volò sulla scacchiera fino al gomito facendo cadere alcune pedine urtandole col bordo della manica, subito alzò le braccia dicendo: “peccato non si può più giocare!”
Sconcerto e rispetto per questa mossa furba quanto buffa, io risi senza trattenermi, Ale cercò di risistemare le pedine dov’erano, ma l’astuto nonnino non glielo permise, sostenendo che ormai era impossibile riprendere la partita, Ale insistette: “mi ricordo le posizioni” assicurò, ma non ci fu verso.
Per chiudere il discorso l’omanita gli offrì la vittoria e gli tese la mano per una stretta che sugellasse il tutto, Ale accettò entrambe con un sorriso tra il divertito e il sollevato, dopotutto essere costretto a stracciare il nonnino che ti sta ospitando nel suo paese gli pareva poco carino. Italia 1 – Oman 0.

LA MILLENARIA VALLE DELLE BOSWELLE SACRE
Abbandonammo le coste dirigendoci nell’entroterra, verso la valle scavata dagli antichi deflussi del diluvio universale, il Wadi Dawkah, culla della Boswellia Sacra, l’albero da cui si ricava l’incenso, anzi il franchincenso. L’intera area è patrimonio dell’Unesco ed è completamente disabitata, per chilometri e chilometri non vedemmo nessuno, neppure una baracca lungo la strada, niente… giusto una coppia di oryx dalle lunghissime corna nere.
Con l’aiuto del GPS arrivammo, un cartello dell’Unesco e un parcheggio deserto ci suggerirono di fermarci, scendemmo dalla macchina rimanendo avvolti da un silenzio fisico, di quelli densi che ti tappano le orecchie e incominci a sentire i rumori del tuo corpo, il battito del cuore, il polmoni che si riempiono d’aria, le tue palpebre che si chiudono srotolandosi, primo istinto (assecondato): cacciare un urlo, sono una vandala, lo so.
Ci dirigemmo verso un cancello cristallizzato di ruggine che nessuno potrà mai più chiudere, lo varcammo, faceva caldo, qui la magia monsonica non può niente, il sole era a picco sulle nostre teste come un raggio della morte.
Davanti a noi gli alberi erano come arbusti spinosi con pochissime foglioline eroiche, la corteccia come fogli di carta velina arricciata, i rami nodosi disegnavano forme in puro stile art nouveau.
Passeggiavamo tranquilli quando si avvicinò una figura umana, era Tak MC (giuro, si chiama così) un pakistano vestito con un tutone teletabbies blu consumato e sudato, che da anni passa qui i cinque mesi estivi in completa solitudine, lavorando alla raccolta dell’incenso.
La cosa è semplice, Tak MC prende un sasso appuntito, colpisce i rami dell’albero ferendolo lievemente in molti punti, da lì la boswellia sacra lacrimerà una resina profumatissima che verrà lasciata seccare sull’albero per 3 mesi, una volta indurita si staccherà e sarà pronta per essere bruciata.
Tak MC fu un vero Master of Ceremonies, con lui visitammo un’area recintata allestita con un sistema per irrigare gli alberi, ci spiegò che tutto questo era separato dal resto del resto del Wadi per tutelare le boswellie dai dromedari e dalle gazzelle che ne mangiano le piccole foglie, spiegandoci inoltre di come si occupava anche di clonare gli alberi tramite talee o polloni. Restammo in questo arboreto esattamente tre minuti, perché Tak MC ci fece segno di seguirlo e, da un’apertura della rete, entrammo nella parte del wadi selvaggio.
Davanti a noi si apriva a perdita d’occhio una distesa sabbiosa color latte macchiato, per terra ciottoli e sassi disposti secondo venature parallele incise dallo scorrere dell’acqua che, in periodi monsonici, scende da monti molto lontani da qui, gli alberi crescono ben distanti l’uno dall’altro, ad una prima occhiata tutto sembrò un po’ desolato e molto arido. Mi chiesi come potesse apparire lo stesso paesaggio quando l’acqua irrompe e inonda tutto.
Teletabbies Tak MC ci condusse fino ad un albero, disse che aveva trecento anni e a me parve sorprendente date la sue scarse dimensioni, sembrava più un arbusto ben cresciuto, eppure mi sentii di dover riconoscere un certo senso di rispetto verso questa creatura così antica che affondava con tenacia le sue radici tra sassi e sabbia facendosi bastare stille di umidità pescate chissà dove, o forse questi sono alberi solari e si nutrono di calore e luce gialla senza altre necessità.
Il nostro cerimoniere sorrise spiegandomi che ne esistevano anche di molto più vecchi in giro, ma nessuno sapeva esattamente dire quanto, perché nessuno è vissuto abbastanza a lungo per contarne gli anni o ha avuto la pazienza di tramandare un compito simile.
Col solo suono dei nostri passi incerti su ciottoli proseguimmo sotto il sole di mezzo giorno fino a che Tak non si immobilizzò davanti a niente dicendo “GHECOGHECOGHECO”. Indicò il suolo, ci piegammo, strizzammo gli occhi ed ecco stagliarsi debolmente dallo sfondo una minuscola lucertolina perfettamente mimetizzata.
Tak ci guardò sorridendo soddisfatto e proseguì fino ad un grande ramo secco incastrato nel terreno, indicandolo ci fece notare il suo disegno ritorto, rimanemmo tutti in contemplazione, anche un po’ perplessi ad essere sinceri, ma compiaciuti; e poi ancora verso un albero speciale, perché è come un nido, infatti Guido non resistette al richiamo della Natura e si appollaiò tra le braccia di questa bellissima pianta (da quel momento in poi la Natura avrà la meglio e perdemmo, minuto dopo minuto, il nostro compagno di viaggio, fino a che non lo ritrovammo lontano centinaia di metri da noi immobile e muto, quasi completamente mimetizzato).
Il nostro passeggiare sul letto di un fiume stagionale, tra alberi centenari con quest’uomo silenzioso colmo della graziadidio (uno stato mentale che dona l’invincibilità, la felicità e l’immortalità momentanea), si rivelò un’iniziazione all’eremitismo, Tak era il nostro maestro jedi e noi eravamo i suoi padawan, lo seguimmo fino ad un punto dove affiora una bassa parete rocciosa gialla come il tuorlo dell’uovo.
Un rumore, con la coda dell’occhio percepii un movimento, c’era qualcosa! Mi avvicinai curiosa cercando con lo sguardo e cosa vidi? Piccioni!
Sì, gli stessi che puoi vedere nelle piazze italiane o di tutto il mondo! Piccioni qui? Con tutto questo caldo che rende il territorio ospitale solo ad una selezionatissima fauna esotica? Ebbene sì, i piccioni che in tanti detestano, resistono al gelo della piazza rossa di Mosca fino al caldo desertico di Wadi Dawkah, e solo allora capii quanta verità c’è nel chiamarli viaggiatori e li guardai per la prima volta con crescente stima.

Le enormi lastre orizzontali di roccia proiettavano un’invitante ombra nella quale avrei voluto riposarmi, ma capii che non era questa l’idea della nostra guida quando incominciò ad arrampicarsi verso la cima.
Io indossavo una castissima gonna lunga fino ai piedi e, nell’alzarla per liberare le gambe al movimento, ho ripensato al film “Picnic ad Hanging Rock”, quando la direttrice dell’istituto femminile australiano, in gita verso questa montagna sacra, concesse straordinariamente alle fanciulle di non indossare i guanti dato il caldo torrido.
Sperai di poter avere un’esperienza mistica anche io, d'altronde la sensazione magica era talmente autentica da farmi temere per un attimo che qualcosa potesse rapire qualcuno di noi.
Continuammo a salire fino a che il nostro amico si voltò sorridendo soddisfatto mostrandoci che nella parete di roccia si apriva una fessura verticale che fungeva da ingresso ad una piccola stanza senza tetto dove un albero cresceva solitario; vivere mesi in completa solitudine, senza niente per passare il tempo, cambia le tue percezioni, guardai quest’albero che non aveva nulla di speciale se non la magia della sua segretezza e immaginavo il nostro amico passeggiare solo nel silenzio di questi enormi spazi aperti, lo immaginai scoprire questo posto sentendo l’enorme potenza delle piccole cose.
In questo stato ci sedemmo in una nicchia della roccia, guardando l’effetto Fatamorgana creato dal caldo che scioglieva la linea dell’orizzonte, decisi che avrei dovuto trovare il tempo per sperimentare la vita di un eremita, capace di darti la visione delle cose del mondo sotto una luce che difficilmente si rivela altrimenti.

Noi eravamo tutti spossati dal caldo, mentre il nostro maestro jedi non si era ancora seduto, cercava qualcosa per terra. Raccoglieva sassi e poi li picchiava uno contro l’altro, il rumore creava un’eco che rimbalzava più volte allontanandosi; quando lo sentimmo esultare lievissimamente ci voltammo e Tak ci mostrò uno dei sassi: era un geode che brillava sotto la luce del sole, in quel luogo, sotto la polvere desertica scintillava un tesoro nascosto.

Notando la scomparsa di Guido temetti che qualcuno avesse esaudito il mio desiderio di esperienza mistica australiana, chiesi: “Guido dov’è?”, il pragmatico Casti propose di incamminarsi alla sua ricerca. Proseguimmo lungo la strada e ormai i miei occhi erano aperti, vidi i minuscoli gechi anche in lontananza, scoprii infinitesimali ciuffi di qualche erba marziana con fiori grandi quanto la testa di uno spillo e, quando Alessandro raccolse una conchiglia pietrificata, ho capito che eravamo diventati jedi, il Maestro approvò poggiando delicatamente la sua mano callosa di lavoro sulla spalla cinghiala del Castri.

Dopo qualche centinaio di metri trovammo Guido solo grazie al fatto che quel giorno aveva deciso di indossare una maglietta rossa, quando fu a portata di voce lo chiamammo, ma non solo non rispose, non si mosse affatto. Era ancora immobile quando lo raggiungemmo, gli parlammo e ancora non ci rispose, non credo fosse in estasi mistica dal momento che lo stavamo evidentemente disturbando, ma so che, sebbene di fronte a noi, in realtà si trovava in un posto lontano mille miglia, avvolto da uno spazio immenso e da quella sensazione che ti dona il sentirti l’unico essere umano sulla Terra.
Dopo qualche minuto cedette e, evidentemente controvoglia, si riebbe da quella trance, credo che se non ci fossimo stati noi a richiamarlo, Guido sarebbe ancora lì, trasformato in albero, a stillare resina, forse è così che nascono le Boswellie Sacre.

PASTORI
Decidemmo di guidare verso lo Yemen, non pensavamo di raggiungerlo, speravamo più che altro che fosse lui ad apparirci all’improvviso, lungo queste strade senza fine che non hanno mai conosciuto il vero traffico, seguimmo le indicazioni dell’istinto fino a perderci in una di queste che si srotolava tra il mare severo e la scogliera rocciosa e nuda.
Corremmo comodamente seduti in macchina perdendo la nozione del tempo, distratti dal paesaggio preistorico dove solo l’asfalto teneva legata la nostra percezione alla realtà, quando sulla sinistra notammo una piccolo raggruppamento di dromedari e decidemmo di fermarci.
Caricammo le nostre macchine fotografiche e ci avvicinammo a uomini e animali fino a scoprire che c’era qualcosa di unico e diverso: questo branco era formato solo da dromedarie in procinto di partorire o che lo avevano appena fatto, sarà che sono una femmina, ma poter assistere un cucciolo di dromedario bianco al suo primo tentativo di rizzarsi sulle lunghe gambette fu un privilegio commovente.
I cuccioli di dromedario sono la massima espressione del buon carattere di queste creature, poco dopo le presentazioni mi ritrovai circondata da musoni pelosi che mi annusavano il collo, che mi davano piccole spinte sulle spalle o che appoggiavano le loro teste sul mio petto e io me li abbracciai tutti.
Fu un momento perfetto in cui mi sentii un incrocio tra San Francesco e Biancaneve beduina, quando uno di loro incominciò a succhiare il lobo del mio orecchio l’estasi mistica raggiunse l’apice ed è esattamente così che vorrei sentirmi sempre.
I pastori ci convinsero a bere del latte e allora mi sembrò un delitto, ma non volli offendere la loro ospitalità e potei così constatare che il latte di dromedaria è salato.
Avrei voluto portarmeli via tutti, già sentivo le proteste di mia madre “Silvia! Pure i dromedari!!!”, guardai Alessandro che colse il pericolo e, senza che io dicessi nulla, mi rispose dolcemente “non possiamo”, lo sapevo anche io, ma ci rimasi comunque male, pattuimmo che prima o poi ne avremmo adottati 3 o 4.


IL RISTORANTE
Ebbri di tenerezza ci scoprimmo affamati, partimmo alla ricerca di un ristorante, l’Oman non è uno di quei paesi turistici dove non hai che l’imbarazzo della scelta, piuttosto pare che non sia uso mangiare fuori, la ristorazione non è un business sfruttato. Finalmente ne trovammo uno ed entrammo, l’ingresso era piccolo e scarno, pareva più una portineria di qualche condominio, seduto dietro ad una scrivania un uomo ci diede il benvenuto, noi eravamo un po’ spaesati dal momento che non c’era neppure un tavolo o almeno una sedia, chiedemmo conferma di essere in un ristorante, l’uomo rispose di sì e ci indicò una delle porte chiuse che si affacciavano su questo ingresso, l’aprimmo credendo di trovare una sala con tavoli apparecchiati e invece scoprimmo solo una piccola stanza completamente vuota con una televisione appesa ad una parete e un cassonetto dell’aria condizionata che rendeva vivibile quello spazio senza finestre. Per terra una moquette polverosa della stessa tonalità che ti veniva da bambino quando prendevi le tempere e mischiavi tutti i colori insieme, mentre lungo le pareti erano allineati alcuni cuscini rettangolari; non sapevamo se entrare, quindi rimanemmo sulla soglia guardandoci l’un l’altro, poi ci voltammo verso l’uomo e questi rispose al nostro sguardo interrogativo con un’aria da embhe?! che non risolse il nostro disorientamento. Questa scena di sguardi muti durò diversi secondi, nessuno faceva niente, la mia mente elaborava diverse possibilità tra cui: l’uomo non parla inglese e non ha capito cosa vogliamo, oppure, è una puntata di ai confini della realtà, personalmente questi momenti immobili mi inquietano, quindi agii facendo qualcosa a caso tipo aprire un’altra porta… altra stanza vuota.
Ok, quello era un privé e quindi entrammo, ma al primo passo l’uomo protestò e noi ci frizzammo come se avesse detto un, due, tre, stella!
Avevamo appena creduto di capire qualcosa che ci ritrovammo nuovamente nell’imbarazzo dell’equivoco, guardammo l’uomo che ci disse qualcosa in arabo, questo devo dire non aiutò affatto, quindi non facemmo niente. Sentivo che stavamo perdendo la stima del portinaio, volevo fare qualcosa di intelligente per riscattarmi, ma mi venne solo da sorridere.
Non fu una mossa così sbagliata perché l’uomo reagì indicandoci le scarpe e capimmo al volo che dovevamo toglierle, questo forse fu peggio per lui perché i nostri piedi erano zozzi duri; lasciammo quindi i sandali all’ingresso e ci sedemmo in mezzo alla stanza a gambe incrociate, ma solo quando ci diede il menù fummo finalmente certi di essere nel posto giusto, l’uomo scrisse l’ordine e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
È così che si mangia in Oman ragazzi, per terra senza neppure il conforto di un tavolino basso, separati in stanzette private che magari ti guardano la moglie, decisi di appropriarmi degli usi locali e cercai di utilizzare in qualche modo i cuscini, dapprima ne misi uno sotto al sedere, ma scartai questa idea per due ragioni: primo perché il cuscino era duro quanto il marmo e secondo perché mi trovavo ancora più alta rispetto al pavimento, aumentando così la difficoltà che si prospettava all’arrivo della pietanza. Allora ricordai i romani e il triclinio, così mi sdraiai tipo la statua di Paolina Bonaparte alla Galleria Borghese, ma i romani avevano cuscini senz’altro più morbidi e, quasi senza accorgermi, scivolai supina e riposai la schiena in posa Tutankamon.
Ed è così che ci trovò il cameriere quando entrò: tre cadaveri semiassopiti che non avevano capito niente del galateo omanita, sulla soglia ebbe un momento di esitazione al quale noi reagimmo alzandoci di scatto come tre Nosferatu dalla bara, l’uomo appoggiò diversi piatti per terra e se ne andò richiudendoci nella stanzetta; ci dividemmo le pietanze e cercammo le posate, sotto ad alcuni fogli di carta tipo quella che anticamente veniva usata per avvolgere gli affettati (questi erano i tovaglioli) scoprimmo 3 cucchiai e ce li facemmo bastare, anche se Ale aveva preso la grigliata mista e io un pesce che mi venne servito intero e tanto cotto da risultare rinsecchito, non chiedemmo altre posate, ormai avevamo terminato i bonus-pazienza e chiamare il cameriere rinchiusi lì dentro scoraggiò noi altri campioni di pigrizia.

Mangiare seduti in posizione da meditazione, da un piatto poggiato sul pavimento, con solo l’ausilio di un cucchiaio non è semplice, quindi iniziò un continuo sperimentare di posizioni: io tipo la Sirenetta di Copenaghen, ma ci vogliono dei buon addominali per poterla mantenere senza appoggiare un braccio (per mangiare col cucchiaio qualcosa che non è minestra ci vogliono due mani); provai le gambe incrociate, ma vidi il Castri nella stessa posizione imprecare sommessamente perché il cucchiaio, nel lungo viaggio dal piatto alla bocca,  spesso perdeva il contenuto per strada. Rimasi ad osservarlo: provò buttando le gambe di lato… no, sdraiato a pancia in giù puntando i gomiti fece almeno 3 bocconi, ma dall’espressione di soffocamento sul suo volto capii che non era l’ideale per ingoiare, quindi si sedette a gambe distese e unite con la schiena poggiata alla parete e il piatto posato sulle cosce, ma neppure questa posizione soddisfaceva le nostre antiche abitudini europee ormai troppo radicate, quindi in uno scatto ribelle prese 2 o 3 cuscinoni, li impilò e si costruì il suo personalissimo tavolino su cui terminò la sua cena. Guido invece non so in che posizione cenò dal momento che lui non mangia, lui teletrasporta direttamente il cibo nello stomaco, quando tu hai finito di stenderti il tovagliolo sulle gambe Guido sta appoggiando la posata sul suo piatto ormai vuoto.

LA MORALIZZATRICE
Il mattino presto è sempre il momento perfetto per visitare un mercato, ovunque tu sia. Il souk di Salalah è piccolo e puoi trovarci stoffe, cinesate, venditori di mussar (il copricapo tipico, un cilindretto ricamato che ricorda il fez, prova dell’antico scambio con l’africa orientale che ha reso i connotati degli omaniti del sud molto più africani che nel resto del paese), frutta e verdura, barbieri, ciabattini, qualche punto di ristoro con tavoli in plastica e incenso.
Noi eravamo qui per acquistare la nostra droga, molta droga: l’incenso. Da quando viviamo in medio oriente abbiamo respirato innumerevoli profumi dagli abiti degli indigeni coi quali dividevamo l’ascensore, o che ci superano lasciando una coda invisibile tutta da annusare, o dai capelli dei loro bambini, dagli ingressi dei negozi, profumi mai assaggiati che si spargono nel pianerottolo di casa, bruciare incenso è un’abitudine ben radicata in questi paesi.
Viziosi come siamo non abbiamo impiegato molto prima di adeguarci agli usi, non passa giorno in cui in casa Castrix non si bruci qualcosa, che siano grani di ambra dorata, bastoncini del tipo indiano o schegge di legni profumati.
Salalah è la capitale dell’incenso, camminammo nelle viuzze del souk tra profumi inebrianti di sandalo, incenso, ambra, iodio e spezie, nei quali ti immergi ad occhi chiusi capendo perché il Kamasutra abbia dedicato un intero capitoli ai profumi.
La scelta è vastissima: c’è il classico che pure si differenzia in infinite qualità diverse, che il nostro naso sta imparando solo ora a distinguere, e i legnetti: piccole scaglie di legno scuro bagnato con olii essenziali. Il legno non so cosa sia, forse aragwood o sandalwood o legno di rosa, gli odori sono quelli, ma ogni rivenditore dispone di composizioni personali, sempre diverse, realizzate con ricette segrete e battezzate con nomi affascianti e poetici.
Per darvi un’idea della cosa dovete pensare ad un estimatore di buon vino che si fa un viaggio tra le colline dell’Oltrepò pavese per rimpinguare la propria cantina. Si entra, si discute riguardo all’annata, si assaggia e solo dopo si compra. Qui succede la stessa cosa, sugli scaffali sono allineati barattoli di diversa grandezza con dentro miscugli scuri, sacchetti di plastica trasparente colmi di chicchi dorati, scatoline in legno o metallo colorato e poi qualche braciere sul bancone pronto per l’assaggio.
Aprimmo uno dopo l’altro i barattoli per fiutarne il contenuto, da veri professionisti tra uno e l’altro ci “pulimmo” le narici tirando lunghe annusate da scodelline piene di chicchi di caffè, poi ne scegliemmo alcuni e chiedemmo di bruciarli per comprenderne appieno il bouquet, infine ne comprammo a chili e ci sedemmo a riposare bevendo un bel bicchierone di succo di melograno.
Osservai la gente suggendo dalla mia cannuccia, il sud dell’Oman è molto diverso dal nord, la gente è più riservata, ma altrettanto curiosa, come noi lo siamo di loro, visitare un lontano paese intatto è come un’esperienza da astronauta, non hai bisogno dell’Enterprise per trovare strani e nuovi mondi.
A Salalah le donne sono più coperte e prediligono il nero per la loro abaya, a differenza del nord, dove usano i colori e le stampe a fantasia, qui difficilmente vedrai più degli occhi o delle mani splendidamente decorate con l’henné.
Osservai un gruppo di ragazze passare, erano completamente coperte, attraversarono la strada e, salendo sul marciapiede, sollevarono il loro abito quel tanto da scoprire una caviglia, notai che sotto l'abaya indossavano delle ballerine, scarpe da ginnastica, pantaloni o leggings lunghi, una di loro delle ciabattine e, sui suoi piedi, scorsi i complicati arabeschi di un disegno all’henné. Proprio lì vicino c’era un gruppetto di ragazzi e mi accorsi che si erano tutti girati a guardare le fanciulle, ma non guardavano il volto (per quel che c’era da vedere), o le forme (magari era più un immaginare), o come l’ampia stoffa segnasse a tratti il loro corpo negli ariosi movimenti che si susseguivano al ritmo del loro passo, no, guardarono i piedi.
Nell’istante in cui le giovani donne alzarono le loro abaya di massimo una spanna, i volti dei maschi si girarono contemporaneamente nella direzione delle caviglie scoperte. Mollai la cannuccia e feci notare la cosa al Castri che mi sedeva accanto, lui risolse velocemente dicendo: “feticisti”.
In un mondo dove tutto è scoperto e si scelgono i piedi o i gomiti allora sì, quelli sono feticisti, ma bisogna mettersi nei panni di quei ragazzi che, a parte le loro madri o sorelle, tutte le femmine le hanno viste coperte come i fantasmi di un qualche film muto. Si fanno bastare quel che c’è da vedere, sono attenti e non gli sfugge nulla, solo Dio sa cosa poi elaborano negli sconfinati e privati spazi della loro immaginazione.
Mi è parso romantico e disperato allo stesso tempo, ero così assorta nelle mie considerazioni che non vidi venirmi incontro una donna tutta coperta che mi disse qualcosa in arabo. Io sorrisi, salutai e dissi che non parlavo la sua lingua, mi scusai concludendo il mio intervento con un altro sorriso. Lei ripeté ciò che aveva precedentemente detto aggiungendo qualcosa, sempre in arabo, il ragazzo dei succhi di frutta, un pakistano o giù di lì, mi disse che mi stava chiedendo da dove venissi, io esclamai “Italy!” sfoderando un sorriso a tutta faccia! Devo precisare che fino ad ora nessuno dei miei sorrisi aveva sortito una qualche risposta, un contagio, sebbene non le potessi vedere il volto, se qualcuno sorride lo si può capire anche solo dagli occhi e lei non lo fece mai.
Sfoderò il dito indice guantato di nero puntandomelo contro e continuò con il suo discorso in arabo, come se nulla fosse, a questo punto ritirai i miei sorrisi e la guardai incredula cercando di interpretare che cappero volesse da me, mi voltai verso il ragazzo dei succhi e gli chiesi cosa mi stava dicendo, lui mi guardò appena e subito si finse impegnato in altro, era chiaro che non voleva entrare nella questione, ma quel dito da moralizzatrice era chiaro: mi stava sgridando per qualcosa. Mentre sentivo Guido sghignazzare alle mie spalle, osservai il mio abbigliamento: ampia gonna lunga fino ai piedi (marrone, che i colori sgargianti attirano l’attenzione), maglia nera in cotone con maniche a tre quarti e lunga ben oltre il sedere, scollatura due dita sotto all’attaccature dello sterno alle clavicole... ecco le clavicole lo so, sanno essere sexy, ma avevo pure una sciarpa nonostante il caldo torrido! Capo scoperto, capelli arruffati e raccolti alla cieca in una matassa tipo nido di ragno gigante alla sommità della testa e sandali ai piedi. Ero senz’altro la più nuda nel raggio di chilometri, ma se tu vuoi metterti l’abaya sorella non puoi costringere me, io ti rispetto, mi adeguo, ma il tuo indice puntato contro mi racconta piuttosto il tuo rancore di anni passati nascosti agli occhi di tutti… toglitela dunque! In Oman non ti lapidano, magari mettiti d’accordo con le altre nostre sorelle, di certo ce ne sarà qualcuna che la pensa come te e presto le altre vi seguiranno!
Ecco quando saprò l’arabo le dirò tutto questo, o magari quando saprò l’arabo capirò che invece voleva solo dirmi “non si fa rumore succhiando con la cannuccia! Comportati da signora!”