mercoledì 14 novembre 2012

Cosmopolitismo, ragionamenti vani e vaneggianti


Cosmopolitismo è un termine che deriva dal greco κόσμος (kósmos), cosmo, universo ordinato, mondo e πολίτης (polìtes), cittadino. Chi sostiene il cosmopolitismo, cioè il cosmopolita, considera se stesso "cittadino del mondo". [Wiki docet]
Essere cosmopolita fa fico, perché giri il mondo e parli altre lingue, anche se poi quando devi esprimere qualcosa di più complesso, come una sensazione o uno stato d’animo, non riuscirai mai a farlo bene come nella tua lingua.
Essere cosmopolita fa fico perché apri la tua mente a situazioni e abitudini che non avevi immaginato comprendendo che ci sono moltissimi modi per condurre una vita, e all’improvviso percepisci i tuoi antenati come fossili.
Il cosmopolita si immerge talmente “nel mondo” che abbandona il suo status originario per abbracciarne decine diversi, spesso tanto mischiati da perderne i contorni.
Dicono che New York sia una città cosmopolita, forse tutti gli Stati Uniti sono il prodotto più autenticamente cosmopolita a dire il vero, un popolo formatosi da gente con origini diverse che s’è ritrovato a inventarsi una cultura nuova, anche se il risultato assomiglia più ad un collage o ad una coperta patchwork. Fossi stata in loro avrei sfogato maggiormente la fantasia, inventandomi delle regole sociali molto più creative… non so avrei istituito il “Giorno dello scambio della prole”: una giornata in cui le famiglie si confondono e mischiano, dando modo ai bambini di ricevere stimoli irraggiungibili dalla crescita in un unico nucleo familiare; oppure avrei inventato la religione definitiva pescando il meglio da tutte e definendo una dottrina spirituale perfetta (tanto ormai le vecchie religioni erano già ampiamente collaudate, evidenziando chiaramente ognuna le sue lacune e, al contrario, ognuna le sue soluzioni più brillanti), ma antropologicamente credo che ormai si sia cristallizzata in una creatura ibrida che incomincia a pietrificarsi tanto quanto le culture più antiche.
Dubai invece è un ottimo spunto di riflessione, perché è una città che è nata all’improvviso tramite persone derivanti da paesi diversissimi con un background talmente difforme da renderne quasi impossibile la fusione.
In soli 40 anni la città è passata da 58mila abitanti a più di 2milioni! È come se Faenza diventasse Roma nel tempo di una generazione! Capite che non c’è tempo per meticciaggi culturali e il prodotto che ne deriva è molto curioso ai miei occhi.
A New York arriveranno anche persone da tutto il mondo, ma la maggior parte sarà sempre autoctona e quindi gli immigrati dovranno comunque adattarsi; invece qui gli indigeni sono ancora meno di quelli che trovarono i primi coloni che invasero l’America (il rapporto è di 2 nativi ogni 10 persone), davvero una minoranza può imporre usi e costumi oltre alle leggi?
Le effusioni sono vietate, ma i pakistani non possono rinunciare alla loro abitudine di camminare tenendosi per mano, quindi ora tenersi per mano è lecito, chi si adatta a chi?
[è come la storia del cartello “vietato fumare”, se fuma uno lo si multa, se fumano in 40 si toglie il cartello]
Quando prendo la metropolitana, quando vado in spiaggia o in un locale, mi rendo conto che una città cosmopolita in realtà è come un mondo in miniatura, i cui confini geografici e culturali rimangono fissi e definiscono le differenze in modo evidente, la tendenza ad auto-ghettizzarsi è imperante e alla fine, anche a 5000 Km di distanza è più facile che un italiano sposi un’italiana, piuttosto che un’araba o una gallese.
(l’attività sessuale è molto più cosmopolita però, và detto)
In un paese dove l’alcool dovrebbe essere bandito si festeggia l’Oktober fest o il giorno di San Patrizio con fiumi di birra, e la carne di maiale impera in supermercati e ristoranti.
Tranne rare eccezioni, alla fine i filippini stanno coi filippini e gli inglesi con altri inglesi, che sia per vedere una partita di calcio o per la grigliata del 4 luglio, anche quando un giamaicano, un omanita e un irlandese si riuniscono (e non è per dare vita ad una barzelletta) lo fanno in virtù di un non-luogo, come ad esempio la musica, in quel caso è il blues il loro “confine geografico”, ma qui si apre una discussione filosofica su quali siano davvero le demarcazioni culturali mondiali al giorno d’oggi e non basterebbe questo blog.
In ogni caso, passeggiando in una città cosmopolita puoi riconoscere immediatamente tutti questi cittadini del mondo: se è scalza è inglese, se è cotonata come Amy Winehouse è libanese, se ha le sopracciglia curate è italiano, se indossa calze e infradito è giapponese, se è abbigliata con un completo di vestito e pantaloni verde pistacchio e fuxia è pakistana, se ha labbra e tette di gomma e sopracciglia tatuate è russa… perdonate questa lista un po’ antipatica, ma è solo quello che vedo. È come se fossimo tutti usciti dai nostri paesi senza essercene accorti.
Forse alla fine il cosmopolitismo non esiste e quando ne incontro uno che si definisce così lo guardo bene e vedo solo qualcuno che ha viaggiato assorbendo superficialmente qualche abitudine diversa (che poi quello lo puoi fare anche ritornando ogni volta a casa), ma che non riesce a liberarsi davvero dalle imposizioni dettate dalla sua tribù.
Forse il vero cosmopolita è Terzani, che se lo leggi allora sì che puoi goderti un vero innesto tra l’italianità e il mondo.
Probabilmente essere cosmopolita è più una condizione da Ricercatore, da studioso, che si accinge ad evolvere la propria cultura, più che abbandonarla.
Essere cittadini del mondo è come essere pittori cubisti: guardare le cose non da un solo punto di vista, ma da tutti quelli possibili, ti rende un uomo saggio, quindi il cosmopolitismo è un’illuminazione concessa a pochi, più che la possibilità di girare per le strade e incontrare un cinese, un kazako e un peruviano.
Il cosmopolitismo non ha alcun senso se non hai un origine netta e definita, nessuno confronto può esserci se prima non sai chi sei, per me il cosmopolitismo nasce dalla cucina di casa tua.