martedì 29 settembre 2015

Oman. Salalah, percezioni.

5 minuti fa vi avrei detto che l’Oman è grande un paio di volte l’Italia, invece chiedo a quello spione di Google e pare che le aree dei due paesi siano quasi uguali (Italia 301.338 km², Oman 312.460 km²).
L’idea di essere sempre gli stessi è una chimera e vivere in una città-stato come Dubai ha cambiato molte delle mie percezioni, il senso dello spazio o il senso del freddo ad esempio.
Su una superficie paragonabile a quella italiana, gli omaniti vivono in poco più di 3milioni, noi ci dividiamo il nostro paese in oltre 60milioni, ora potete immaginare quanto spazio aperto puoi percorrere in Oman senza incontrare nessun essere umano. 
L’Oman è a due ore di macchina da Dubai, ci andiamo spesso, ma questa volta però abbiamo preso l’aereo, direzione: Salalah, una cittadina a sud molto vicino al confine con lo Yemen.
Guido è venuto con noi. [Guido è un incrocio tra un lupo e un leone, l’unico che riesce ad esporsi rimanendo in ombra, è alto con gli occhi chiari come un vichingo e con un osso in più nel piede destro.
Fondamentalmente è un taoista governato dal sole, ma anche dalla luna, passa dalle vette agli abissi in un sospiro e viceversa e, quando si appassiona a qualcosa,  il suo traguardo è una lepre che non si ferma mai.
Insieme amiamo salvare animali, fotografare, scovare nuovi posti e situazioni particolari, lavorare e parlare di filosofia con toni accesi.]
Salalah è stata protagonista assoluta nella storia più antica, ma è passato tanto tempo e, visitandola ora, sembra che quei giorni siano solo un mito, eppure questo posto era il punto di unione di più mondi: lo scambio di spezie provenienti dall’India, della mirra dall’Africa con l’incenso della regione e l’oro dall’occidente.
Se potessi viaggiare con una macchina del tempo non sceglierei il futuro, ma il passato, e di certo una capatina qui me la farei, penso che la mia percezione di cosmopolitismo subirebbe delle variazioni importanti.
Può sembrare un luogo remotissimo, ma è molto più connessa a noi di quel che immaginiamo, quando diciamo “incenso” subito il rimando è ai fumi sparsi in qualche chiesa, ma ben prima del Cristianesimo da Salalah partivano migliaia di tonnellate di incenso destinate a profumare le abitazioni dell’impero romano. Qualcuno scrisse che Dio aveva ordinato di usare incenso e legni profumati solo per il divino, per i santi, ma mai per godimento personale, pena il bando dal proprio popolo (Libro dell’Esodo, XXX, 34-38), ora, il Signore non se ne abbia a male, ma io e il Castri ne bruciamo in abbondanza per pura delizia privata.
Perdonate questa introduzione pieroangeliana, ma devo anche raccontarvi che Salalah è la capitale di una regione chiamata Dhofar, che significa verde, è uno di quei luoghi magici che nel giro di pochi giorni si trasforma da deserto roccioso, con scheletri di alberi secchi, a colline umbre verdi e lussureggianti.
Qui Demetra la fa grossa, per 2 o 3 mesi l’anno l’aria piano piano si rinfresca, una nebbia argentina gonfia di rugiada si diffonde nell’aria e d’improvviso: pioggia! Ma pioggia di quella che ogni goccia è uno schiaffo, pioggia monsonica furiosa che si alterna capricciosamente durante la giornata, tanta che si raccoglie in fiumi, che ingrossano laghi, che nutrono polvere e sassi fino a tramutarli in erba e fiori.
Alberi polverosi e sopiti dopo mesi si risvegliano in boschi freschi, gemme smeraldine si affacciano ovunque profumando l’aria e le capre saltellano felici battendosi il 5 con lo zoccolo. (che a ‘sto punto è 1 e non 5)
Quando arrivammo noi tutto questo era alla primitiva fase della nebbia argentina e dell’aria fresca, questa cosa della rugiada è molto più piacevole ammirarla come goccioline di mercurio sui petali dei fiori che averla costantemente in faccia, su capelli e vestiti, in ogni caso è stupefacente notare come inspessisca l’aria e nasconda il cielo.
Ma prima di questo devo raccontare dell’aeroporto. Atterrammo che era quasi l’una e, dovendo ritirare la macchina affittata, raddoppiammo il passo per raggiungere il controllo passaporti prima possibile, col timore di trovare l’agenzia chiusa per pranzo. Superammo agilmente la folla un po’ disorientata e rimbambita dal viaggio, raggiungemmo lo sportello del visto e iniziammo a compilare il modulo necessario per il rilascio.
Nel frattempo la folla ci raggiunse, notai che erano quasi tutti giovani pakistani arrivati lì sicuramente per lavorare, lo so che sono uomini fatti e finiti, sani e consenzienti, ma a me fanno sempre una tenerezza che me li porterei a casa tutti. Hanno un’aria che quasi sembrano chiedere scusa del fatto di esistere, stanno tutti vicini, appoggiandosi l’un l’altro come docili erbivori in cerca di coraggio e protezione, e ti guardano con occhi giganti e scuri dentro i quali vedi chiaramente la loro indole remissiva di cui presto qualcuno approfitterà.
È per questo che quando due di loro si avvicinarono ad Ale per spiare come compilava il modulo, questi non poté resistere a lungo e, dopo aver cercato inutilmente di spiegare, mise da parte ciò che stava facendo, prese foglio e passaporto di uno dei due e iniziò a scrivere.
I due si sedettero affianco al Castri, rimanendo a guardarlo in silenzio, esattamente come facevano mentre lui cercava di dire loro “ecco, qui scrivi il tuo nome…”: nessuna reazione, niente, neppure un cenno del capo, solo un perpetuo sorriso quasi impercettibile e due grandi occhi neri spalancati; non parlavano inglese, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di dirlo in qualche modo.
Quando gli altri pakistani videro quello che stava facendo Alessandro si avvicinarono piano quasi esitando, ma inesorabilmente, a gruppi di 3 o 4 fino a circondarlo completamente.
Sebbene fossero tutti appoggiati l’uno all’altro, avevano lasciato al Castri un metro quadro di spazio vitale d’azione che nessuno delle 30 persone osava profanare, nel silenzio assoluto Ale compilava moduli sillabando i lunghi e astrusi nomi, date e luoghi mentre loro lo osservavano da vicino: i capelli, i vestiti, le infradito (che si era già tolto), come se non avessero mai visto un uomo bianco, anche se orsetto dal pelo bruno.
Ecco questo è uno dei motivi per cui io me lo sono sposato il Castri, perché compilò tutti i moduli, uno alla volta, senza perdere la pazienza, o la speranza di insegnare loro come si faceva, e infatti alla fine arrivò quello che comprese e lo aiutò, arrivò persino un altro pakistano, ricco e ben vestito, che abbandonò la coda al controllo passaporti e si sedette a compilare moduli anche lui.
Così rimanemmo solo noi, che passammo per ultimi, senza fretta ormai, con la rassegnazione di trascorrere la pausa pranzo davanti alla porta chiusa dell’agenzia in attesa della nostra 4x4, senza ricordare che eravamo in Oman! La terra della gente stupenda, che mai se ne andrebbe a pranzo sapendo di dover consegnare una macchina a dei turisti, infatti eccolo lì, il signore dell’agenzia, col suo vestitone candido a salutarci mentre gli andavamo incontro.

L’AMICHEVOLE DELLA NAZIONALE DI SCACCHI
Arrivammo sul litorale con una mezza idea di goderci una di quelle splendide spiagge viste in foto e invece ci trovammo in un paesaggio virato all’acciaio, onde di un mare ruggente mordevano la spiaggia scomponendosi in milioni di goccioline leggere che volavano nell’aria raggiungendoci nonostante fossimo svariati metri lontani dalla riva; ok niente bagno, spostammo lo sguardo e scorgemmo delle figure in lontananza parzialmente inghiottite dalle nebbie di Avalon.
Quando le raggiungemmo scoprimmo che erano avventori di un piccolo bar che giocavano a scacchi seduti sul lungomare.
Per chi conosce il Castri sa che una visione del genere fa scattare in lui un istinto primordiale, già nel ventre materno passava il tempo studiandosi le mosse, spesso ama descriversi come scacchista prima che come essere umano.


L’ospitalità omanita non tardò a manifestarsi, ci chiesero da dove venissimo, cosa facessimo lì e… se volevamo giocare a scacchi, fu come premere un pulsante sulla schiena di Ale che rispose: “sono uno scacchista del circolo X…” (al Castri non basta un “sì”, lui deve sempre raccontare la sua storia), senza ascoltare il signore gli fece segno di sedersi, sorridendo, l’altro gli cedette il suo posto e così iniziò Italia-Oman.

La scena aveva un che del settimo sigillo di Bergman: ci sono questi due anziani omaniti vestiti di bianco, su un tavolino bianco con lo sfondo grigio biancastro di mare e spiaggia e Alessandro di nero vestito, con capelli, baffi, occhi e occhiali corvini: bianchi contro neri sulla scacchiera e sulla spiaggia.
Sulla carta l’omanita disponeva di un evidente vantaggio: l’esperienza dovuta all’età e al tempo a disposizione senza che la vita gli avesse chiesto di timbrare un cartellino in qualche ufficio, dall’altra parte invece il Castri era un apparente pivello occidentale da castigare.
Nessuno parlò, le mani si alternarono sulla scacchiera spostando pedine, incominciarono i primi attacchi, a quanto pareva l’omanita non aveva tempo da perdere e voleva impartire al più presto una bella lezione all’azzurro di fronte a lui. Il nostro cinghiale invece si mostrò più meditativo, sembrava quasi in difficoltà mentre si tormentava il mento con un massaggio costante.
L’anziano scacchista si pappò l’alfiere del suo avversario e rise, una di quelle risate di sicurezza, si sentiva che l’aveva in gola da quando Ale s’era seduto, la risata di una conferma soddisfatta.
Alessandro senza alzare gli occhi mangiò la regina, la risata si troncò e scivolò nuovamente da dove era venuta, solo allora il nostro azzurro alzò lo sguardo e il suo sorriso suonava più come un “sorry”, che umiltè!
L’omanita non si abbatté, tornò a concentrarsi e ad attaccare impavido, ad ogni mossa voleva dare scacco, e ad ogni scacco l’azzurro si difendeva fino a che, quasi dispiaciuto, il Castri piazzò una forchetta. L’omanita rimase di stucco, aveva già perso cavallo e regina e ora doveva decidere tra alfiere e torre.
Silenzio e immobilismo, Ale smise persino di tormentarsi il mento.
Fu allora che l’anziano campione arabo piazzò la mossa definitiva: con un rapido slancio la mano volò sulla scacchiera fino al gomito facendo cadere alcune pedine urtandole col bordo della manica, subito alzò le braccia dicendo: “peccato non si può più giocare!”
Sconcerto e rispetto per questa mossa furba quanto buffa, io risi senza trattenermi, Ale cercò di risistemare le pedine dov’erano, ma l’astuto nonnino non glielo permise, sostenendo che ormai era impossibile riprendere la partita, Ale insistette: “mi ricordo le posizioni” assicurò, ma non ci fu verso.
Per chiudere il discorso l’omanita gli offrì la vittoria e gli tese la mano per una stretta che sugellasse il tutto, Ale accettò entrambe con un sorriso tra il divertito e il sollevato, dopotutto essere costretto a stracciare il nonnino che ti sta ospitando nel suo paese gli pareva poco carino. Italia 1 – Oman 0.

LA MILLENARIA VALLE DELLE BOSWELLE SACRE
Abbandonammo le coste dirigendoci nell’entroterra, verso la valle scavata dagli antichi deflussi del diluvio universale, il Wadi Dawkah, culla della Boswellia Sacra, l’albero da cui si ricava l’incenso, anzi il franchincenso. L’intera area è patrimonio dell’Unesco ed è completamente disabitata, per chilometri e chilometri non vedemmo nessuno, neppure una baracca lungo la strada, niente… giusto una coppia di oryx dalle lunghissime corna nere.
Con l’aiuto del GPS arrivammo, un cartello dell’Unesco e un parcheggio deserto ci suggerirono di fermarci, scendemmo dalla macchina rimanendo avvolti da un silenzio fisico, di quelli densi che ti tappano le orecchie e incominci a sentire i rumori del tuo corpo, il battito del cuore, il polmoni che si riempiono d’aria, le tue palpebre che si chiudono srotolandosi, primo istinto (assecondato): cacciare un urlo, sono una vandala, lo so.
Ci dirigemmo verso un cancello cristallizzato di ruggine che nessuno potrà mai più chiudere, lo varcammo, faceva caldo, qui la magia monsonica non può niente, il sole era a picco sulle nostre teste come un raggio della morte.
Davanti a noi gli alberi erano come arbusti spinosi con pochissime foglioline eroiche, la corteccia come fogli di carta velina arricciata, i rami nodosi disegnavano forme in puro stile art nouveau.
Passeggiavamo tranquilli quando si avvicinò una figura umana, era Tak MC (giuro, si chiama così) un pakistano vestito con un tutone teletabbies blu consumato e sudato, che da anni passa qui i cinque mesi estivi in completa solitudine, lavorando alla raccolta dell’incenso.
La cosa è semplice, Tak MC prende un sasso appuntito, colpisce i rami dell’albero ferendolo lievemente in molti punti, da lì la boswellia sacra lacrimerà una resina profumatissima che verrà lasciata seccare sull’albero per 3 mesi, una volta indurita si staccherà e sarà pronta per essere bruciata.
Tak MC fu un vero Master of Ceremonies, con lui visitammo un’area recintata allestita con un sistema per irrigare gli alberi, ci spiegò che tutto questo era separato dal resto del resto del Wadi per tutelare le boswellie dai dromedari e dalle gazzelle che ne mangiano le piccole foglie, spiegandoci inoltre di come si occupava anche di clonare gli alberi tramite talee o polloni. Restammo in questo arboreto esattamente tre minuti, perché Tak MC ci fece segno di seguirlo e, da un’apertura della rete, entrammo nella parte del wadi selvaggio.
Davanti a noi si apriva a perdita d’occhio una distesa sabbiosa color latte macchiato, per terra ciottoli e sassi disposti secondo venature parallele incise dallo scorrere dell’acqua che, in periodi monsonici, scende da monti molto lontani da qui, gli alberi crescono ben distanti l’uno dall’altro, ad una prima occhiata tutto sembrò un po’ desolato e molto arido. Mi chiesi come potesse apparire lo stesso paesaggio quando l’acqua irrompe e inonda tutto.
Teletabbies Tak MC ci condusse fino ad un albero, disse che aveva trecento anni e a me parve sorprendente date la sue scarse dimensioni, sembrava più un arbusto ben cresciuto, eppure mi sentii di dover riconoscere un certo senso di rispetto verso questa creatura così antica che affondava con tenacia le sue radici tra sassi e sabbia facendosi bastare stille di umidità pescate chissà dove, o forse questi sono alberi solari e si nutrono di calore e luce gialla senza altre necessità.
Il nostro cerimoniere sorrise spiegandomi che ne esistevano anche di molto più vecchi in giro, ma nessuno sapeva esattamente dire quanto, perché nessuno è vissuto abbastanza a lungo per contarne gli anni o ha avuto la pazienza di tramandare un compito simile.
Col solo suono dei nostri passi incerti su ciottoli proseguimmo sotto il sole di mezzo giorno fino a che Tak non si immobilizzò davanti a niente dicendo “GHECOGHECOGHECO”. Indicò il suolo, ci piegammo, strizzammo gli occhi ed ecco stagliarsi debolmente dallo sfondo una minuscola lucertolina perfettamente mimetizzata.
Tak ci guardò sorridendo soddisfatto e proseguì fino ad un grande ramo secco incastrato nel terreno, indicandolo ci fece notare il suo disegno ritorto, rimanemmo tutti in contemplazione, anche un po’ perplessi ad essere sinceri, ma compiaciuti; e poi ancora verso un albero speciale, perché è come un nido, infatti Guido non resistette al richiamo della Natura e si appollaiò tra le braccia di questa bellissima pianta (da quel momento in poi la Natura avrà la meglio e perdemmo, minuto dopo minuto, il nostro compagno di viaggio, fino a che non lo ritrovammo lontano centinaia di metri da noi immobile e muto, quasi completamente mimetizzato).
Il nostro passeggiare sul letto di un fiume stagionale, tra alberi centenari con quest’uomo silenzioso colmo della graziadidio (uno stato mentale che dona l’invincibilità, la felicità e l’immortalità momentanea), si rivelò un’iniziazione all’eremitismo, Tak era il nostro maestro jedi e noi eravamo i suoi padawan, lo seguimmo fino ad un punto dove affiora una bassa parete rocciosa gialla come il tuorlo dell’uovo.
Un rumore, con la coda dell’occhio percepii un movimento, c’era qualcosa! Mi avvicinai curiosa cercando con lo sguardo e cosa vidi? Piccioni!
Sì, gli stessi che puoi vedere nelle piazze italiane o di tutto il mondo! Piccioni qui? Con tutto questo caldo che rende il territorio ospitale solo ad una selezionatissima fauna esotica? Ebbene sì, i piccioni che in tanti detestano, resistono al gelo della piazza rossa di Mosca fino al caldo desertico di Wadi Dawkah, e solo allora capii quanta verità c’è nel chiamarli viaggiatori e li guardai per la prima volta con crescente stima.

Le enormi lastre orizzontali di roccia proiettavano un’invitante ombra nella quale avrei voluto riposarmi, ma capii che non era questa l’idea della nostra guida quando incominciò ad arrampicarsi verso la cima.
Io indossavo una castissima gonna lunga fino ai piedi e, nell’alzarla per liberare le gambe al movimento, ho ripensato al film “Picnic ad Hanging Rock”, quando la direttrice dell’istituto femminile australiano, in gita verso questa montagna sacra, concesse straordinariamente alle fanciulle di non indossare i guanti dato il caldo torrido.
Sperai di poter avere un’esperienza mistica anche io, d'altronde la sensazione magica era talmente autentica da farmi temere per un attimo che qualcosa potesse rapire qualcuno di noi.
Continuammo a salire fino a che il nostro amico si voltò sorridendo soddisfatto mostrandoci che nella parete di roccia si apriva una fessura verticale che fungeva da ingresso ad una piccola stanza senza tetto dove un albero cresceva solitario; vivere mesi in completa solitudine, senza niente per passare il tempo, cambia le tue percezioni, guardai quest’albero che non aveva nulla di speciale se non la magia della sua segretezza e immaginavo il nostro amico passeggiare solo nel silenzio di questi enormi spazi aperti, lo immaginai scoprire questo posto sentendo l’enorme potenza delle piccole cose.
In questo stato ci sedemmo in una nicchia della roccia, guardando l’effetto Fatamorgana creato dal caldo che scioglieva la linea dell’orizzonte, decisi che avrei dovuto trovare il tempo per sperimentare la vita di un eremita, capace di darti la visione delle cose del mondo sotto una luce che difficilmente si rivela altrimenti.

Noi eravamo tutti spossati dal caldo, mentre il nostro maestro jedi non si era ancora seduto, cercava qualcosa per terra. Raccoglieva sassi e poi li picchiava uno contro l’altro, il rumore creava un’eco che rimbalzava più volte allontanandosi; quando lo sentimmo esultare lievissimamente ci voltammo e Tak ci mostrò uno dei sassi: era un geode che brillava sotto la luce del sole, in quel luogo, sotto la polvere desertica scintillava un tesoro nascosto.

Notando la scomparsa di Guido temetti che qualcuno avesse esaudito il mio desiderio di esperienza mistica australiana, chiesi: “Guido dov’è?”, il pragmatico Casti propose di incamminarsi alla sua ricerca. Proseguimmo lungo la strada e ormai i miei occhi erano aperti, vidi i minuscoli gechi anche in lontananza, scoprii infinitesimali ciuffi di qualche erba marziana con fiori grandi quanto la testa di uno spillo e, quando Alessandro raccolse una conchiglia pietrificata, ho capito che eravamo diventati jedi, il Maestro approvò poggiando delicatamente la sua mano callosa di lavoro sulla spalla cinghiala del Castri.

Dopo qualche centinaio di metri trovammo Guido solo grazie al fatto che quel giorno aveva deciso di indossare una maglietta rossa, quando fu a portata di voce lo chiamammo, ma non solo non rispose, non si mosse affatto. Era ancora immobile quando lo raggiungemmo, gli parlammo e ancora non ci rispose, non credo fosse in estasi mistica dal momento che lo stavamo evidentemente disturbando, ma so che, sebbene di fronte a noi, in realtà si trovava in un posto lontano mille miglia, avvolto da uno spazio immenso e da quella sensazione che ti dona il sentirti l’unico essere umano sulla Terra.
Dopo qualche minuto cedette e, evidentemente controvoglia, si riebbe da quella trance, credo che se non ci fossimo stati noi a richiamarlo, Guido sarebbe ancora lì, trasformato in albero, a stillare resina, forse è così che nascono le Boswellie Sacre.

PASTORI
Decidemmo di guidare verso lo Yemen, non pensavamo di raggiungerlo, speravamo più che altro che fosse lui ad apparirci all’improvviso, lungo queste strade senza fine che non hanno mai conosciuto il vero traffico, seguimmo le indicazioni dell’istinto fino a perderci in una di queste che si srotolava tra il mare severo e la scogliera rocciosa e nuda.
Corremmo comodamente seduti in macchina perdendo la nozione del tempo, distratti dal paesaggio preistorico dove solo l’asfalto teneva legata la nostra percezione alla realtà, quando sulla sinistra notammo una piccolo raggruppamento di dromedari e decidemmo di fermarci.
Caricammo le nostre macchine fotografiche e ci avvicinammo a uomini e animali fino a scoprire che c’era qualcosa di unico e diverso: questo branco era formato solo da dromedarie in procinto di partorire o che lo avevano appena fatto, sarà che sono una femmina, ma poter assistere un cucciolo di dromedario bianco al suo primo tentativo di rizzarsi sulle lunghe gambette fu un privilegio commovente.
I cuccioli di dromedario sono la massima espressione del buon carattere di queste creature, poco dopo le presentazioni mi ritrovai circondata da musoni pelosi che mi annusavano il collo, che mi davano piccole spinte sulle spalle o che appoggiavano le loro teste sul mio petto e io me li abbracciai tutti.
Fu un momento perfetto in cui mi sentii un incrocio tra San Francesco e Biancaneve beduina, quando uno di loro incominciò a succhiare il lobo del mio orecchio l’estasi mistica raggiunse l’apice ed è esattamente così che vorrei sentirmi sempre.
I pastori ci convinsero a bere del latte e allora mi sembrò un delitto, ma non volli offendere la loro ospitalità e potei così constatare che il latte di dromedaria è salato.
Avrei voluto portarmeli via tutti, già sentivo le proteste di mia madre “Silvia! Pure i dromedari!!!”, guardai Alessandro che colse il pericolo e, senza che io dicessi nulla, mi rispose dolcemente “non possiamo”, lo sapevo anche io, ma ci rimasi comunque male, pattuimmo che prima o poi ne avremmo adottati 3 o 4.


IL RISTORANTE
Ebbri di tenerezza ci scoprimmo affamati, partimmo alla ricerca di un ristorante, l’Oman non è uno di quei paesi turistici dove non hai che l’imbarazzo della scelta, piuttosto pare che non sia uso mangiare fuori, la ristorazione non è un business sfruttato. Finalmente ne trovammo uno ed entrammo, l’ingresso era piccolo e scarno, pareva più una portineria di qualche condominio, seduto dietro ad una scrivania un uomo ci diede il benvenuto, noi eravamo un po’ spaesati dal momento che non c’era neppure un tavolo o almeno una sedia, chiedemmo conferma di essere in un ristorante, l’uomo rispose di sì e ci indicò una delle porte chiuse che si affacciavano su questo ingresso, l’aprimmo credendo di trovare una sala con tavoli apparecchiati e invece scoprimmo solo una piccola stanza completamente vuota con una televisione appesa ad una parete e un cassonetto dell’aria condizionata che rendeva vivibile quello spazio senza finestre. Per terra una moquette polverosa della stessa tonalità che ti veniva da bambino quando prendevi le tempere e mischiavi tutti i colori insieme, mentre lungo le pareti erano allineati alcuni cuscini rettangolari; non sapevamo se entrare, quindi rimanemmo sulla soglia guardandoci l’un l’altro, poi ci voltammo verso l’uomo e questi rispose al nostro sguardo interrogativo con un’aria da embhe?! che non risolse il nostro disorientamento. Questa scena di sguardi muti durò diversi secondi, nessuno faceva niente, la mia mente elaborava diverse possibilità tra cui: l’uomo non parla inglese e non ha capito cosa vogliamo, oppure, è una puntata di ai confini della realtà, personalmente questi momenti immobili mi inquietano, quindi agii facendo qualcosa a caso tipo aprire un’altra porta… altra stanza vuota.
Ok, quello era un privé e quindi entrammo, ma al primo passo l’uomo protestò e noi ci frizzammo come se avesse detto un, due, tre, stella!
Avevamo appena creduto di capire qualcosa che ci ritrovammo nuovamente nell’imbarazzo dell’equivoco, guardammo l’uomo che ci disse qualcosa in arabo, questo devo dire non aiutò affatto, quindi non facemmo niente. Sentivo che stavamo perdendo la stima del portinaio, volevo fare qualcosa di intelligente per riscattarmi, ma mi venne solo da sorridere.
Non fu una mossa così sbagliata perché l’uomo reagì indicandoci le scarpe e capimmo al volo che dovevamo toglierle, questo forse fu peggio per lui perché i nostri piedi erano zozzi duri; lasciammo quindi i sandali all’ingresso e ci sedemmo in mezzo alla stanza a gambe incrociate, ma solo quando ci diede il menù fummo finalmente certi di essere nel posto giusto, l’uomo scrisse l’ordine e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
È così che si mangia in Oman ragazzi, per terra senza neppure il conforto di un tavolino basso, separati in stanzette private che magari ti guardano la moglie, decisi di appropriarmi degli usi locali e cercai di utilizzare in qualche modo i cuscini, dapprima ne misi uno sotto al sedere, ma scartai questa idea per due ragioni: primo perché il cuscino era duro quanto il marmo e secondo perché mi trovavo ancora più alta rispetto al pavimento, aumentando così la difficoltà che si prospettava all’arrivo della pietanza. Allora ricordai i romani e il triclinio, così mi sdraiai tipo la statua di Paolina Bonaparte alla Galleria Borghese, ma i romani avevano cuscini senz’altro più morbidi e, quasi senza accorgermi, scivolai supina e riposai la schiena in posa Tutankamon.
Ed è così che ci trovò il cameriere quando entrò: tre cadaveri semiassopiti che non avevano capito niente del galateo omanita, sulla soglia ebbe un momento di esitazione al quale noi reagimmo alzandoci di scatto come tre Nosferatu dalla bara, l’uomo appoggiò diversi piatti per terra e se ne andò richiudendoci nella stanzetta; ci dividemmo le pietanze e cercammo le posate, sotto ad alcuni fogli di carta tipo quella che anticamente veniva usata per avvolgere gli affettati (questi erano i tovaglioli) scoprimmo 3 cucchiai e ce li facemmo bastare, anche se Ale aveva preso la grigliata mista e io un pesce che mi venne servito intero e tanto cotto da risultare rinsecchito, non chiedemmo altre posate, ormai avevamo terminato i bonus-pazienza e chiamare il cameriere rinchiusi lì dentro scoraggiò noi altri campioni di pigrizia.

Mangiare seduti in posizione da meditazione, da un piatto poggiato sul pavimento, con solo l’ausilio di un cucchiaio non è semplice, quindi iniziò un continuo sperimentare di posizioni: io tipo la Sirenetta di Copenaghen, ma ci vogliono dei buon addominali per poterla mantenere senza appoggiare un braccio (per mangiare col cucchiaio qualcosa che non è minestra ci vogliono due mani); provai le gambe incrociate, ma vidi il Castri nella stessa posizione imprecare sommessamente perché il cucchiaio, nel lungo viaggio dal piatto alla bocca,  spesso perdeva il contenuto per strada. Rimasi ad osservarlo: provò buttando le gambe di lato… no, sdraiato a pancia in giù puntando i gomiti fece almeno 3 bocconi, ma dall’espressione di soffocamento sul suo volto capii che non era l’ideale per ingoiare, quindi si sedette a gambe distese e unite con la schiena poggiata alla parete e il piatto posato sulle cosce, ma neppure questa posizione soddisfaceva le nostre antiche abitudini europee ormai troppo radicate, quindi in uno scatto ribelle prese 2 o 3 cuscinoni, li impilò e si costruì il suo personalissimo tavolino su cui terminò la sua cena. Guido invece non so in che posizione cenò dal momento che lui non mangia, lui teletrasporta direttamente il cibo nello stomaco, quando tu hai finito di stenderti il tovagliolo sulle gambe Guido sta appoggiando la posata sul suo piatto ormai vuoto.

LA MORALIZZATRICE
Il mattino presto è sempre il momento perfetto per visitare un mercato, ovunque tu sia. Il souk di Salalah è piccolo e puoi trovarci stoffe, cinesate, venditori di mussar (il copricapo tipico, un cilindretto ricamato che ricorda il fez, prova dell’antico scambio con l’africa orientale che ha reso i connotati degli omaniti del sud molto più africani che nel resto del paese), frutta e verdura, barbieri, ciabattini, qualche punto di ristoro con tavoli in plastica e incenso.
Noi eravamo qui per acquistare la nostra droga, molta droga: l’incenso. Da quando viviamo in medio oriente abbiamo respirato innumerevoli profumi dagli abiti degli indigeni coi quali dividevamo l’ascensore, o che ci superano lasciando una coda invisibile tutta da annusare, o dai capelli dei loro bambini, dagli ingressi dei negozi, profumi mai assaggiati che si spargono nel pianerottolo di casa, bruciare incenso è un’abitudine ben radicata in questi paesi.
Viziosi come siamo non abbiamo impiegato molto prima di adeguarci agli usi, non passa giorno in cui in casa Castrix non si bruci qualcosa, che siano grani di ambra dorata, bastoncini del tipo indiano o schegge di legni profumati.
Salalah è la capitale dell’incenso, camminammo nelle viuzze del souk tra profumi inebrianti di sandalo, incenso, ambra, iodio e spezie, nei quali ti immergi ad occhi chiusi capendo perché il Kamasutra abbia dedicato un intero capitoli ai profumi.
La scelta è vastissima: c’è il classico che pure si differenzia in infinite qualità diverse, che il nostro naso sta imparando solo ora a distinguere, e i legnetti: piccole scaglie di legno scuro bagnato con olii essenziali. Il legno non so cosa sia, forse aragwood o sandalwood o legno di rosa, gli odori sono quelli, ma ogni rivenditore dispone di composizioni personali, sempre diverse, realizzate con ricette segrete e battezzate con nomi affascianti e poetici.
Per darvi un’idea della cosa dovete pensare ad un estimatore di buon vino che si fa un viaggio tra le colline dell’Oltrepò pavese per rimpinguare la propria cantina. Si entra, si discute riguardo all’annata, si assaggia e solo dopo si compra. Qui succede la stessa cosa, sugli scaffali sono allineati barattoli di diversa grandezza con dentro miscugli scuri, sacchetti di plastica trasparente colmi di chicchi dorati, scatoline in legno o metallo colorato e poi qualche braciere sul bancone pronto per l’assaggio.
Aprimmo uno dopo l’altro i barattoli per fiutarne il contenuto, da veri professionisti tra uno e l’altro ci “pulimmo” le narici tirando lunghe annusate da scodelline piene di chicchi di caffè, poi ne scegliemmo alcuni e chiedemmo di bruciarli per comprenderne appieno il bouquet, infine ne comprammo a chili e ci sedemmo a riposare bevendo un bel bicchierone di succo di melograno.
Osservai la gente suggendo dalla mia cannuccia, il sud dell’Oman è molto diverso dal nord, la gente è più riservata, ma altrettanto curiosa, come noi lo siamo di loro, visitare un lontano paese intatto è come un’esperienza da astronauta, non hai bisogno dell’Enterprise per trovare strani e nuovi mondi.
A Salalah le donne sono più coperte e prediligono il nero per la loro abaya, a differenza del nord, dove usano i colori e le stampe a fantasia, qui difficilmente vedrai più degli occhi o delle mani splendidamente decorate con l’henné.
Osservai un gruppo di ragazze passare, erano completamente coperte, attraversarono la strada e, salendo sul marciapiede, sollevarono il loro abito quel tanto da scoprire una caviglia, notai che sotto l'abaya indossavano delle ballerine, scarpe da ginnastica, pantaloni o leggings lunghi, una di loro delle ciabattine e, sui suoi piedi, scorsi i complicati arabeschi di un disegno all’henné. Proprio lì vicino c’era un gruppetto di ragazzi e mi accorsi che si erano tutti girati a guardare le fanciulle, ma non guardavano il volto (per quel che c’era da vedere), o le forme (magari era più un immaginare), o come l’ampia stoffa segnasse a tratti il loro corpo negli ariosi movimenti che si susseguivano al ritmo del loro passo, no, guardarono i piedi.
Nell’istante in cui le giovani donne alzarono le loro abaya di massimo una spanna, i volti dei maschi si girarono contemporaneamente nella direzione delle caviglie scoperte. Mollai la cannuccia e feci notare la cosa al Castri che mi sedeva accanto, lui risolse velocemente dicendo: “feticisti”.
In un mondo dove tutto è scoperto e si scelgono i piedi o i gomiti allora sì, quelli sono feticisti, ma bisogna mettersi nei panni di quei ragazzi che, a parte le loro madri o sorelle, tutte le femmine le hanno viste coperte come i fantasmi di un qualche film muto. Si fanno bastare quel che c’è da vedere, sono attenti e non gli sfugge nulla, solo Dio sa cosa poi elaborano negli sconfinati e privati spazi della loro immaginazione.
Mi è parso romantico e disperato allo stesso tempo, ero così assorta nelle mie considerazioni che non vidi venirmi incontro una donna tutta coperta che mi disse qualcosa in arabo. Io sorrisi, salutai e dissi che non parlavo la sua lingua, mi scusai concludendo il mio intervento con un altro sorriso. Lei ripeté ciò che aveva precedentemente detto aggiungendo qualcosa, sempre in arabo, il ragazzo dei succhi di frutta, un pakistano o giù di lì, mi disse che mi stava chiedendo da dove venissi, io esclamai “Italy!” sfoderando un sorriso a tutta faccia! Devo precisare che fino ad ora nessuno dei miei sorrisi aveva sortito una qualche risposta, un contagio, sebbene non le potessi vedere il volto, se qualcuno sorride lo si può capire anche solo dagli occhi e lei non lo fece mai.
Sfoderò il dito indice guantato di nero puntandomelo contro e continuò con il suo discorso in arabo, come se nulla fosse, a questo punto ritirai i miei sorrisi e la guardai incredula cercando di interpretare che cappero volesse da me, mi voltai verso il ragazzo dei succhi e gli chiesi cosa mi stava dicendo, lui mi guardò appena e subito si finse impegnato in altro, era chiaro che non voleva entrare nella questione, ma quel dito da moralizzatrice era chiaro: mi stava sgridando per qualcosa. Mentre sentivo Guido sghignazzare alle mie spalle, osservai il mio abbigliamento: ampia gonna lunga fino ai piedi (marrone, che i colori sgargianti attirano l’attenzione), maglia nera in cotone con maniche a tre quarti e lunga ben oltre il sedere, scollatura due dita sotto all’attaccature dello sterno alle clavicole... ecco le clavicole lo so, sanno essere sexy, ma avevo pure una sciarpa nonostante il caldo torrido! Capo scoperto, capelli arruffati e raccolti alla cieca in una matassa tipo nido di ragno gigante alla sommità della testa e sandali ai piedi. Ero senz’altro la più nuda nel raggio di chilometri, ma se tu vuoi metterti l’abaya sorella non puoi costringere me, io ti rispetto, mi adeguo, ma il tuo indice puntato contro mi racconta piuttosto il tuo rancore di anni passati nascosti agli occhi di tutti… toglitela dunque! In Oman non ti lapidano, magari mettiti d’accordo con le altre nostre sorelle, di certo ce ne sarà qualcuna che la pensa come te e presto le altre vi seguiranno!
Ecco quando saprò l’arabo le dirò tutto questo, o magari quando saprò l’arabo capirò che invece voleva solo dirmi “non si fa rumore succhiando con la cannuccia! Comportati da signora!”