Un giorno
Ale tornò a casa dicendomi di non sentirsi bene, aveva la faccia sbattuta, così
si sdraiò a letto rabbrividendo e provò la febbre speranzoso. Speranzoso perché
comunque non si sentiva poi così male e la febbre spesso è più l’occasione per
riposarsi e farsi coccolare che una vera sofferenza, è per questo che i maschi
fanno tante tragedie quando hanno 37 e mezzo, perché desiderano tornare bambini
con un alibi valido, se dopo i 37 è ufficialmente febbre, allora l’alibi è approvato
per legge.
Purtroppo
per lui il giorno dopo era già sfebbrato, la guarigione lavora lesta e la
pacchia sembrava finita, e invece no: la febbre saliva e scendeva senza seguire
i normale andamento sera/alta e mattino/bassa, ricordano le parole di mia madre
sospettai una polmonite e dissi al Castri che questa volta avrei deposto lo
scettro del comando come imperatrice del suo corpo e che era il caso si
affidasse ad un medico.
Avremmo
inaugurato l’assicurazione medica mai utilizzata, non sapevamo neppure bene
dove andare, così ci fermammo nell’ospedale più vicino a casa provvisto di
pronto soccorso.
Entrammo
seguendo le indicazione “emergency”, all’ingresso vedemmo un bancomat e una
caffetteria solo dopo l’accettazione.
Io sono una
grande frequentatrice di ospedali, sono caduta svariate volte abbastanza
rovinosamente perché mi fossero messi punti o fatti esami alla testa; ho fatto
l’appendicite; sono stata ingessata ad ambo due le gambe (in tempi diversi);
steccata più dita delle mani; ferita un occhio col pennino mentre disegnavo i
complicati reticoli di una foglia con la china; ho fratturato un osso del
gomito, ma niente gesso, solo un tutore; una volta ci sono finita pure in
ambulanza perché intossicata da qualcosa in piscina mentre ci allenavamo per delle
gare, insomma mia madre diceva di avere l’abbonamento, quindi credo di avere
una discreta esperienza in materia.
Appena
entrati ci rivolgemmo all’accettazione descrivendo il disturbo di Ale, così si
fa in un pronto soccorso: entri e descrivi il tuo malanno all’accettazione… no
no baby, benvenuto nel fantastico mondo della sanità privata.
Prima di tutto dammi un documento e te lo
chiedo senza togliere gli occhi dal mio schermo Sir, la prima persona con
la quale parlerai al pronto soccorso non è un medico, ne un infermiere e
neppure un pranoterapista, ma un tizio in giacca e cravatta strappato da un
ufficio che manco vuole sapere che cos’hai, ti interrompe, vuole prima la tua
tessera dell’assicurazione poi, solo dopo aver inserito i tuoi dati, ti chiede
cos’hai, ma solo per verificare che la tua assicurazione copra quel determinato
disturbo.
Ok, noi non
avevamo un’urgenza, e non so come funzioni se arrivi in ambulanza con
un’urgenza vera, ma mentre ero seduta in attesa ho visto arrivare due uomini che
ne reggevano un terzo ferito ad un piede, che sanguinava e che era stato
fasciato di fretta con qualcosa di rimediato. Pure a lui è stata fatta tutta la
manfrina alla non ci resta che piangere
(alt, chi siete, dove andate, un fiorino), e qualcosa dev’essere andato storto
perché, sebbene ben vestiti e in possesso di un qualche tesserino, i due uomini
si sono dovuti ricaricare l’amico sulle spalle e andarsene, col piede
insanguinato e la faccia sconsolata.
Io ho
assistito alla scena inorridita dall’alto della mia esperienza con la
martoriata, eroica, vessata, depredata ed amatissima sanità italiana. Sì, era solo un taglio al piede, non era in pericolo di vita, e mi hanno detto
che a Dubai esiste un ospedale pubblico gratuito, non so come sia e di certo lì
lo avranno ricucito, ma vedere la scena dal vivo, le espressioni sui volti
essendo nella stessa situazione, ti fa accapponare la pelle, ti fa vergognare
della fortuna che hai, ti fa sentire come in un episodio di Black Mirror.
La sanità
privata è in contraddizione con concetti come civiltà, cultura o evoluzione, se
non possiamo cucire il piede di un uomo il progresso che crediamo di aver
conquistato è solo una chimera.
Nel
frattempo l’assicurazione aveva riconosciuto Ale e d’incanto era apparsa
un’infermiera con una sedia a rotelle, mentre un secondo prima poteva morire lì,
adesso non poteva più neppure fare un passo con le proprie gambe. Il Castri era
ancora vergine in fatto di ospedali, non era mai stato al pronto soccorso,
aveva solo una febbre ballerina, anche se era arrivata a 39 e passa non se la
sentiva di farsi portare in giro in carrozzina, quindi rifiutò sorridendo, così
come quando si fanno i complimenti di fronte alla zia che ti offre il secondo
piatto di lasagne.
L’infermiera
gentile sorrise, quasi scusandosi, replicando che non era possibile, Alessandro
DOVEVA sedersi. Il Castri allora le assicurò che poteva benissimo camminare, del
resto non era lì in piedi di fronte a lei in quel momento? Ma no, per questioni
legate alla sua sicurezza doveva sedersi, non poteva deambulare da solo, di
fronte alla risolutezza dell’infermiera Alessandro si sedette, ma più per
evitare discussioni, per farle un favore.
Ecco, da quel
momento scattò qualcosa, fu come un passaggio di consegne: quel corpo non
apparteneva più a me o al Castri, quel corpo ora era loro.
Dopo non più
di 8 metri l’infermiera fermò la sedia a rotelle di fronte ad una stanza con un
lettino sempre all’interno del pronto soccorso e fece accomodare Alessandro, tutta ‘sta sceneggiata sulla sicurezza, e siedi, e dai no, mi vergogno, siedi ti dico! Eenno dai! Va bene…
per fare neppure 10 passi?!
Io ancora
non avevo chiaro il quadro della situazione, mi stupivo solo del repentino
cambio di atteggiamento da prima a dopo il controllo dell’assicurazione, dalla
freddezza inumana alla solerzia esagerata.
Poco dopo
portarono Ale a fare i raggi, in minuti arrivò il risultato: polmonite. (questa è la prova uomini: le vostre mogli sanno sempre tutto prima di tutti)
Voi direte:
veloci capperi, però le cose funzionano con un’altra marcia nella sanità
privata!
Signori, la
marcia è davvero un’altra perché nonostante la diagnosi noi non avevamo ancora
visto un medico, ma solo paramedici, e ora ricominciava la fase “si ma i soldi
li hai?” perché si doveva capire se l’assicurazione avrebbe coperto la cura
quindi, se per la diagnosi sono serviti massimo 20 minuti dalla sedia a rotelle
al responso, per l’approvazione dell’assicurazione sono passate 2 ore vere, col
povero Castri tremebondo di febbre sdraiato in un letto senza niente per
coprirsi; ho dovuto chiedere io se potevano portargli una coperta e sono
arrivati con un lenzuolo.
[Sebbene Ale mi abbia dato il permesso, il mio senso di protezione da mamma orsa mi ha impedito di mostrare il volto della sofferenza, ma in quella col lenzuolo aveva uno sguardo che non poteva rimanere nascosto, era lo sguardo de La Febbra.]
Quando
finalmente ci comunicarono l’approvazione dell’assicurazione, spostarono il
malato nella sua camera, una singola con frigorifero, divano, poltrone, wifi e
bagno privato.
Questa stanza è senz’altro molto meglio di quelle della sanità pubblica, lo ammetto, come è bello il fatto che non esistano orari di visita, tu puoi passare col degente tutto il tempo che vuoi, in quanti volete, il divano è lì apposta.
Questo però mi
è costato il fatto di essere ricoverata insieme al Castri, dopo una lunga
contrattazione sono riuscita giusto a spuntare il fatto di andare a casa a
dormire, deo gratias.
Quindi ho
passato una settimana con Alessandro, per vederlo mangiare e fare flebo con
antibiotico e paracetamolo, a litri, crepi l’avarizia! Tutto qui, qualcosa che
poteva fare benissimo a casa nel suo letto, certo doveva prendere le medicina
per bocca, ma così l'assicurazione non avrebbe pagato 400 euro al giorno.
Quelli però
non sapevano con chi avevano a che fare, il Castri infatti prese il suo ruolo
di malato molto seriamente, innanzi tutto decise di tenere con sé il
termometro, per provarsi la febbre ogni mezz’ora e mandava me ogni volta che
superava i 38 e mezzo ad avvisare, questo dopo che aveva notato un certo
lassismo nel rispondere quando suonava il suo campanello; gli infermieri, più
pazienti di Giobbe, avevano capito che Alessandro non conosceva la storia di
Pierino che gridava “al lupo, al lupo”.
Inoltre chiese
di parlare col nutrizionista, responsabile dei menù, perché in effetti portare
piselli ad un fabico non è carino, anche se sei già in ospedale, inoltre
sosteneva che un malato necessita di frutta e verdura cruda per agevolare la
guarigione, non di carote e cavolfiori bolliti, così come di cibo più semplice
e nutriente come del pesce grigliato, senza troppe spezie e condimenti
difficili da digerire, come il shawarma di montone che gli avevano servito poco prima. La dottoressa prendeva i
suoi appunti scusandosi, dal canto mio non confessai di aver scelto io il
shawarma per Ale, pensando di fargli cosa gradita, visto che ne è ghiotto, ero
troppo commossa e orgogliosa per la faccenda delle verdure e del pesce
grigliato.
[ogni giorno
un’inserviente ti porta un menù con diverse scelte da spuntare per colazione
(uova, cereali, frutta, succo, pane tostate e marmellata, yogurt, ecc.), per
pranzo (carne, riso, verdure, yogurt, frutta, ecc.) e cena (vedi pranzo), tu
spunti ciò che vuoi e te lo portano il giorno dopo. Questo è un altro aspetto
positivo della sanità privata, anche se poi hai detto a tutti che sei fabico e
ti servono piselli come verdura]
Il giorno
dopo Alessandro ebbe insalata fresca e un filetto di pesce grigliato immerso in
una succulenta salsa all’aglio...
Quando,
verso le 23, tornavo a casa e mentre cucinavo la mia cena, il Castri non
resisteva e mi chiamava su skype e questa era la scena che avevo di fronte:
Un santo che
faceva spugnature fresche per alleviare le sudate da competizione che gli
sbalzi di febbre causavano ad Ale, erano i momenti in cui ringraziavo la sanità
privata, altrimenti sarebbero toccate a me, il Castri non può sudare per conto
suo come tutti gli altri, deve farti partecipare.
Insomma Alessandro
s’era fatto conoscere anche lì, una cosa che mi fece impressione era l’estrema gentilezza di tutto il personale,
dal dottore alla signora delle pulizie il paziente è trattato come un cliente
da soddisfare, per noi che siamo abituati a rincorrere i dottori nei corridoi e
a farci trattare sempre un po’ male, un po’ di gentilezza e disponibilità
furono una bella sorpresa.
Al secondo
giorno quando arrivai trovai questo sulla porta della stanza:
Mi misi la
mascherina un po’ preoccupata pensando che avessero trovato qualcosa nel ceppo
del virus che aveva colpito Alessandro, ma il giorno dopo, quando vidi che i
dottori in visita non l’indossavano per la seconda volta, la tolsi e iniziai a
pensare che ci fosse una precisa volontà nel farlo sentire malato e bisognoso.
Al terzo
giorno mi lamentai del fatto che non facessero niente oltre alle flebo di
antibiotico, Ale fece sue queste parole coi dottori in visita, questi
prescrissero un’altra radiografia al torace per accontentarlo, io mi morsi la
lingua.
Al quarto
giorno la febbre non passava, quindi cambiarono antibiotico e continuarono con
le taniche di paracetamolo.
Al quinto
giorno verso sera ci fu l’atteso miglioramento, la febbre rimase sotto ai 37 gradi,
ridussero le dosi di paracetamolo sostituendolo con della fisiologica per
idratarlo, quel poveretto doveva girare sempre col suo bastone da flebo e la
camicia da notte, mi sembrava Gandalf il bianco.
Al sesto
giorno era completamente sfebbrato, io fui contenta perché pensavo di poterlo
portare a casa, del resto non rischiava certo di prendere freddo uscendo, visto
che era un tipico giugno dubaiano coi suoi 40 gradi, e per idratarlo avevo un
piano: farlo bere, ma i dottori dissero: domani, se anche domani non hai febbre
vai a casa.
Al settimo
giorno dissero: domani, oggi è venerdì ed è festa.
Ale
sfebbrato, senza flebo, sequestrato in ospedale che lavora.
All’ottavo
giorno andai all’ospedale agguerrita, avevo ormai capito che non lo avrebbero
fatto uscire mai più, quello non era un ospedale, ma una qualche setta malefica
che voleva tenersi il corpicione del Castri per chissà quali scopi. Avevo
deciso che me lo sarei riportato a casa quel giorno, a costo di combattere.
Feci colazione in silenzio, preparandomi allo scontro, entrai nella sua camera
più risoluta che mai e dissi: “prendi le tue cose che oggi usciamo da qua, vivi
o morti.”
Grazie al
cielo Ale era lì seduto sul bordo del letto con affianco la sua valigina,
pronto ad uscire, mi guardò con aria interrogativa, non dovetti combattere, ma
tenni stretta la sua mano mentre camminavamo veloci verso l’uscita.
Promisi a me
stessa che non ci avrebbero rivisti mai più, ma me ne scordai due anni dopo,
quando eravamo al parco, Ale col suo skateboard e io col mio monopattino,
correvamo felici come bambini fino a che il Castri non cadde con tutto il
corpicione sul polso sinistro.
Quando si
rialzò aveva il braccio un po’ a zig-zag, io gli dissi di tenere duro fino in
ospedale mentre gli steccai il polso usando il mio cellulare (samsung galaxy
MEGA, non a caso si chiama mega, è grande come una piastrella e in
quest’occasione dimostrò una volta di più il suo valore) e la sua kefiah, lui
non emise un fiato e guidò fino all’ospedale.
La mia
steccatura improvvisata fu l’unico conforto che ebbe, per ore e ore, anche dopo
raggi e risonanza magnetica, anche dopo che furono diagnosticate 5 fratture e
ossa scomposte e la prospettiva di un intervento con viti e fascette in titanio,
questo fino a quando finalmente non arrivò l’approvazione dell’assicurazione
ovviamente.
Alcuni
appunti del chirurgo poco prima dell’operazione
[Per chi se
lo domandasse lasciarono libero il Castri dopo solo 2 giorni dall'operazione, anche se da
allora ci furono molte visite di controllo e radiografie con cadenza
settimanale per un totale di 6, più una risonanza magnetica, tutto in un mese e
mezzo, ma forse il loro numero aumenterà, ha da poco iniziato la fisioterapia.
E per chi pensa
che io sia un’utopista e che la sanità pubblica sia da abolire perché non
funziona sappia che per tutta la strada dal parco all’ospedale, eravamo
preoccupati non tanto dal braccio, ma da cosa dire in accettazione quando ci
avrebbero chiesto come era caduto… l’assicurazione avrebbe coperto lo skateboard?
Nel caso, come potevamo altrimenti giustificare un danno del genere? Questi non
sono proprio i primi pensieri che ci sarebbero venuti in mente in Italia.]