Oggi è il 3
ottobre 2015, il caldo aleggia ancora prepotente nell’aria ed è un giorno
speciale, Eid Al Adha, è una festa musulmana e più precisamente quella dedicata
al sacrificio, in pratica deriva dalla vicenda di Abramo e Isacco, ma i figli
sono risparmiati, tocca agli animali ‘sto giro, come da secoli ormai.
(Abramo e
Isacco appartengono anche al cristianesimo, al di là di quello che molti
credono sono molte di più le similitudini piuttosto che le differenze tra le
due religioni…)
Vale tutto,
a seconda delle possibilità, un cammello, una mucca, una capra… che sia carne
però.
Si sacrifica,
se ne fanno 3 porzioni: una rimane in famiglia, un’altra invece va donata alle
persone più vicine, che siano gli zii o i vicini o gli amici più stretti,
l’ultima è quella che dà il senso a questi 3 giorni di festa, perché è
destinata ai poveri.
Così ci
raccontava il tassista pakistano che ci stava portando dall’altra parte della
città, spiegandoci che è si la festa del sacrificio, ma soprattutto la festa dei
poveri, ok magari può essere argomentato meglio, ma io vi racconto le esatte
parole che ha saputo dire quel giovane uomo nel suo inglese incerto (certo
migliore del mio).
Non so bene
che collegamento sia scattato nel suo cervello, ma ci raccontò anche che cinque
giorni fa è venuta a mancare sua nonna ultracentenaria, neppure lui sapeva
quanti anni aveva di preciso quella donna che non rinunciava a fare quel che
aveva sempre fatto in vita, solo molto più lentamente. Il suo segreto per un’esistenza
così longeva, assicurava l’uomo, era il fatto di vivere in mezzo alla natura,
di nutrirsi solo con i frutti della propria terra, di bere alla propria fonte,
ma soprattutto di non possedere l’aria condizionata, ebbene mi trovavo
perfettamente d’accordo con lui, sempre detto che l’aria condizionata è il
diavolo.
Alla fine
arrivammo alla nostra meta e mi dispiacque scendere, sarei rimasta comodamente
seduta ad ascoltare la sua placida voce raccontarmi di sua figlia di pochi mesi
e del suo progetto di vita, molto simile al nostro: rimanere a Dubai quel tanto
da poter accumulare un piccolo gruzzolo che gli consentisse di tornare a casa. Tutti
erranti, partiamo da paesi e situazioni molto diverse tra loro e ci incrociamo
mentre inseguiamo il medesimo scopo.
Scesi
comunque e aspettai che Alessandro pagò, come al solito, più del dovuto… ogni
volta che si parla con un tassista Ale non riesce a non dare una mancia ben
spessa, a volte penso che si senta in colpa nel possedere soldi, anche se posso
testimoniare che se li guadagna con fiotti di sudore che stillano dalla sua
testa fumante, dedicando giornalmente ben oltre le 8 ore convenzionali italiane
o le 10 dubaiane, ma forse il motivo è che Alessandro appartiene alla mia
generazione, quella che ha imparato che se lavori per qualcuno devi
ringraziarlo e il pagamento (o lo stipendio) è un di più, un premio insperato.
Ebbene
eravamo arrivati, il programma della serata era Oktoberfest Reggae, con i
migliori DJ kenioti in circolazione, non sapevo bene cosa aspettarmi, se crauti
o gazzelle, ma di certo ero sicura di una cosa: avrei ballato.
E così fu, i
ragazzi africani che vivono a Dubai non hanno necessità di un ritmo sostenuto,
la loro selezione musicale era molto slow, più che ballare si dondolava
dolcemente e col sorriso.
Mi guardavo
in giro e vedevo splendida gente super-stilosa anche nelle loro mise più
improbabile che mai averi osato neppure nella solitudine delle 4 mura
casalinghe, però il loro possono permettersi di indossare qualunque cosa e
stanno bene, tipo la maglietta pseudo-just cavalli con su il buon Bob Marley o
il leopardato a strizzare copri floridi.
Abbiamo
ballato e bevuto birra fino a quando Alessandro non ha ricevuto la prima
chiamata dal bagno, alla quale ha risposto prontamente, una volta tornato mi ha
raccontato di aver conosciuto un giovane arrivato dallo Zimbabwe, il dialogo è
stato più o meno questo:
ragazzo: tu
bevi e devi fare pipì
ale: …
ragazzo: tu
mangi e devi fare popò
ale: …
ragazzo: il
resto dormi, la vita è questa
ale: …
ragazzo:
vengo dallo Zimbabwe ho 25 anni
ale:
piacere, sono Alessandro e sono italiano
ragazzo:
prendimi a lavorare con te
Lasciare
senza parole Alessandro non è facile, questo è stato uno di quei momenti, perché
gli aveva rivolto questa richiesta? Perché a lui… così a bruciapelo… in un
bagno?
So che
avrebbe voluto portarselo a casa, dargli quel lavoro, adottarlo se necessario,
ma non potendo si è limitato a dargli il suo numero di telefono.
Per farvi
comprendere lo stato d’animo di Alessandro pensate che non è riuscito a fare
quel che doveva ed è tornato da noi per raccontarci quel dialogo un po’
surreale, tempo 30 secondi e sul suo cellulare è comparso un messaggio dello
stesso ragazzo che lo salutava, rallegrandosi di averlo conosciuto.
Dopo qualche
minuto Ale è tornato alla toilette, senza fare incontri, riuscendo a portare a
termine la sua missione.
I DJ kenioti
se ne fregano delle convenzioni, se una canzone gli piace non si fanno problemi
a riproporla 2 o 3 volte nell’arco della stessa serata, li riconosci perché hanno
un piccolo asciugamano poggiato sulla spalla sinistra, che tengono anche quando
non sono alla consolle, noi si ballava ligi.
Proprio
davanti a noi un ragazzo indossava una
maglietta con su scritto “jah is real”, per chi non lo sa Jah è il nome di Dio
per i rastafariani, e Ale voleva fare una foto a quella scritta con sfondo i DJ
kenioti, così… un ricordino della serata, purtroppo il ragazzo ballava, la luce
era fioca e quindi s’è reso necessario che gli chiedessimo la cortesia di stare
fermo un secondo per poter scattare.
Questo ha
implicato sorrisi, strette di mano e complimenti, ma la foto non è venuta…
troppa poca luce, fa niente. Senonchè lo stesso ragazzo dopo qualche minuto
ritorna da noi e ci dice “se volete, per 100 dirham (20 euri) vi dò la
maglietta”, io e Ale ci guardiamo negli occhi imbarazzati, Ale gli risponde
ringraziandolo, gli mostra che ormai c’è rimasto più di una decina di euro,
giusto il necessario per pagare il taxi del ritorno, lui ci sorride, altra
stretta di mano e ritorna a ballare.
Penso che
anche se l’avessi voluta a tutti i costi, mai mi sarei permessa di farlo
spogliare lì all’istante! E non stiamo parlando di persone bisognose che si
venderebbero le scarpe pur di mangiare eh!
Questi
ragazzi bene o male lavorano tutti, altrimenti qui a Dubai non potrebbero starci.
(io sì, che ho il passaporto italiano, io posso starci come turista anche 20
anni di seguito, basta che timbri ogni 30/40 giorni, il mio amico argentino –ad esempio-
ha invece diritto ad un visto per un ingresso solo e dopo 30 giorni se ne deve
andare, io invece posso entrare e uscire, rimanere o andare come mi pare)
Mi chiedo se
puzziamo di soldi, Ale ha dei vecchi jeans e una T-shirt nera con su Guido e lui
ritratti tipo blues brothers, io ho
sandali, banalissimi leggings e una casacca H&M, orecchini di bigiotteria
neri e stop… no, non è quello.
Qui a Dubai
succede spesso che in qualità di donna bianca venga trattata con privilegi che
altri non hanno, spesso mi fanno passare avanti nelle file, se sono al bancone
di qualche negozio mi servono per prima, se io dico “c’era prima lei/lui”,
questa/o che era davanti mi ringrazia e la persona dietro al bancone mi sorride
come se io fossi infinitamente magnanima che io quasi ci rimango male!
Se c’è
qualcuno che aspetta un taxi prima di me io mi tengo ben in disparte, perché se
dovessimo alzare la mano contemporaneamente, il tassista si ferma da me… certo
non se c’è una nerona o un biancone in attesa come noi, in quel caso biancone
batte tutti.
Io mi
vergogno di questo trattamento, mi dispiace, non ho fatto nulla per meritare
tali favori, lo so cosa ha fatto per secoli l’uomo bianco e cosa continua a
fare, io non voglio i privilegi conquistati con la prepotenza, prima di venire
qui manco avevo l’esatta consapevolezza di essere bianca, era solo una delle
milioni di cose alle quali non prestavo tanta attenzione.
Non voglio
essere l’uomo bianco tipo quello della pubblicità che arriva a lavori fatti,
lascia tutti in trepidante attesa, assaggia un ananas e poi dice sì, come se fosse una generosa
concessione… porca zozza! Se è buono l’ananas lo decide chi si è spezzato la
schiena per coltivarlo o chi lo compra per mangiarselo!
Certo, io mi lamento del disagio, del mio imbarazzo,
del dispiacere che mi procura essere trattata come l’uomo del monte, ma voglio specificare: so
benissimo che l’uomo nero sta molto, ma molto peggio.
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